
Racconto pulp, questo di Francesco Zanolla, che ci trasporta nella visione cinematografica di un sabato sera qualunque in una qualsiasi città. Botte, sangue e un briciolo d’amore.
Buona lettura.
In questa valle di lacrime
These are the tracks we lay to take us from fire
These are the scars made by our chains.
The Black Heart Procession
Robin Tunney è un’ attrice americana. Classe 1972.
Interpreta l’agente del California Bureau of Investigation Teresa Lisbon nella serie The Mentalist. Magari qualcuno la ricorda anche in Supernova, mediocre pellicola fantascientifica del 2000, dove si esibiva nuda in un fugace amplesso a gravità 0 prima di venir tolta dalle spese dal cattivo di turno.
E ora è proprio una Robin Tunney in versione Supernova, gli stessi profondi occhi verdi e gli stessi capelli corti e corvini, che ti sta tamponando un taglio sopra il sopracciglio destro.
Non siete nello spazio profondo, però. Siete nel vano posteriore di un’ambulanza ferma a bordo strada, appena fuori dal parcheggio del Parentesi. E lei non è nuda, ma indossa una tuta della Croce Rossa.
L’altro paramedico sta assistendo il dottore, intento a controllare le pupille di un tizio seduto sul predellino. Si sente stonato, dice. Gli gira tutto. Non ha preso nulla. Un paio di Havana Cola. Non di più.
«Dicono tutti così», ti spiega Robin, mentre con una garza di cotone imbevuta di tintura di iodio inizia a disinfettarti la ferita. Lo dice in italiano. E l’accento non è proprio californiano. Piuttosto, diresti del Centro. Marche o Umbria.
«E lei, invece, che ha combinato?» ti chiede.
«Qualcuno ha aperto una porta del bagno. Con un po’ troppa energia», menti.
«Cose che capitano» dice, ma non credi l’abbia bevuta.
Il buttafuori all’entrata del Parentesi il primo colpo lo ha tirato allo sterno. Qualcosa di poco definito. Più di una manata. Meno di un pugno. Ma faceva male comunque. Sei andato indietro barcollando.
«Tutto qui?» hai urlato dopo esserti stabilizzato sulle gambe. Allora è arrivato il gancio al sopracciglio. Quello sì, tirato con sentimento.
A quel punto qualcuno si è messo in mezzo. In due o tre hanno bloccato il bestione. Qualcun altro ti ha messo un braccio attorno alle spalle, allontanandoti dalle transenne. «Lascia perdere. Non è serata», ti ha grugnito nell’orecchio prima di spingerti gentilmente verso il parcheggio.
Ti sei passato una mano sulla faccia e sulla fronte. Scosse di elettricità sopra l’occhio destro. E sangue sui polpastrelli. Hai controllato gli occhi. Le palpebre. Asciutte come fiumare in agosto. Eppure faceva male. Sì che faceva male.
Hai raggiunto l’ambulanza, ferma come ogni sabato notte appena fuori dal parcheggio di uno dei locali più frequentati della zona per fornire assistenza ai reduci della movida.
«È un taglio sottile ma profondo. Però niente punti» dice Robin, gettando la garza. «Adesso copriamo.»
Si avvicina per metterti un cerotto. Fiuti tracce di deodorante evaporato.
Un odore familiare. Fino a sei mesi fa ti capitava di annusarlo spesso. Dalla stessa distanza, a volte anche più da vicino.
«Ecco fatto», dice. Ti aiuta a venir giù dalla barella.
«Grazie.»
C’è qualcos’altro che vorresti dirle? Non ti pare. E poi non ti viene in mente niente.
Quando torni alla macchina, sono le tre e venti del mattino.
Cerchi di respirare piano. Lo sterno ti fa ancora male.
Per fortuna ti fa ancora male.
***
Mandi giù mezzo sonnifero prima di andartene a letto.
Le costole ti fanno sussultare al minimo contatto con il materasso. Così provi a metterti sulla schiena.
Ossa ammaccate.
Il torace è indolenzito e vibra malamente a ogni respiro appena un po’ più profondo. Il taglio sopra l’occhio pulsa e prude. Migliaia di uncini minuscoli conficcati tra pelle e carne.
Però questo dolore è reale. Questo dolore è qui e ora.
Sono le quattro passate. Pochi problemi. Tecnicamente è già domenica. Giorno del Signore. Una doccia non guasterebbe. E magari anche un pasto decente. Ma ci ragionerai più tardi.
Questo dolore intanto rimette le cose nella giusta prospettiva. Riordina le priorità.
Ossa ammaccate. Tessuti tumefatti.
Tre settimane fa hai buscato due pedate negli stinchi da uno degli addetti alla security di una discoteca. Portava enormi anfibi neri, probabilmente con la punta rinforzata. Hai zoppicato per quasi dieci giorni. A chi te lo chiedeva dicevi che era successo giocando a calcetto: la solita entrata kamikaze da parte del solito difensore testa di cazzo.
Per gli occhiali da sole che da lunedì dovrai portare, invece, ti inventerai qualcosa. Un orzaiolo. Un principio di congiuntivite. Una crisi acuta di vampirismo. Casomai qualcuno te lo chiedesse.
Hai preso il sonnifero perché, quando riesce a fare effetto, ti mette a dormire senza sognare. Non che importi, ora.
Ora la cosa più importante è questo dolore. È reale. Ed è benedetto, finché dura.
Ossa ammaccate. Tessuti tumefatti. Croste e spurghi di siero.
Riuscissi a piangerci sopra, sarebbe veramente il massimo.
La prima volta che l’hai vista. Ti ricordi che leggeva. Un romanzo, il classico mattone per qualche esame di storia della letteratura, pensavi, e sbagliavi, ma l’avresti scoperto solo più tardi. Sulla copertina ritratto d’epoca di dama in nero, cappellino di paglia e orlo di pizzo.
Il titolo non sei riuscito a leggerlo. E, ora che ci pensi, non gliel’hai più domandato.
Poteva essere Emily Bronte. O Jane Austen.
Il libro era appoggiato sulla gamba destra, accavallata all’altra.
Pantaloni neri elasticizzati. Postura apparentemente neutra.
Dita magre che correvano sulle righe della pagina. Bocca piccola, labbra sottili. Occhi grandi. Verde screziato di grigio.
Poteva essere Flaubert. O Tolstoj. O magari Henry James.
E il seno sotto la maglia che sussultava leggero e ritmico con il respiro. Ancora non sapevi se mai l’avresti toccato. Ma già immaginavi di farlo.
Una decina di giorni dopo la botta al sopracciglio sei di nuovo in pista.
È venerdì sera. È il primo venerdì di giugno. Mancano sei minuti a mezzanotte e questa volta sei davanti al Punto e a Capo.
Una bolgia infernale dentro, dove i bassi martellano come i pistoni del motore dell’Inferno scavalcando le siepi attorno al giardino estivo del locale, che viene riaperto oggi in pompa magna.
Una bolgia infernale fuori, con i soliti pitbull moderatamente upper-fashion che entrano pieni di spocchia, accompagnati dalle solite levriere esageratamente upper-fashion, fendendo la folla nel complesso supinamente upper-fashion che si accalca all’entrata.
La serata è rigorosamente a inviti. HyperExtraExclusive. Che significa: se non sei in una delle liste, evita anche solo di presentarti.
Mentre perlustri la zona nei pressi dell’ingresso, immagini l’effetto di un colpo dritto al naso. Te lo pregusti. Ma non dovrai aspettare molto.
Eccolo lì, il tuo uomo. L’armadio semovente, rapato alla moicana, che affianca la tipa in miniabito nero addetta al controllo degli inviti e delle liste. È lui il tipo giusto per un lavoro del genere.
Immagini una testata, tirata dell’alto verso il basso. Uno scatto secco dei muscoli del collo. Il bordo superiore del suo arco frontale contro la radice del tuo naso alla stessa velocità terminale di un missile anticarro che centra il bersaglio.
Immagini schegge d’osso e la camicia bianca che si inzuppa di sangue rosso rubino.
Immagini che dovrebbero bastare un paio di moine, due o tre frecciate riguardanti i suoi presunti gusti sessuali, o le singolari attitudini verso il sesso della compagna e/o madre e/o sorella, magari accompagnate da un tentativo esplicito di forzare il blocco.
Stai imparando a diventare un più che discreto provocatore di buttafuori.
Così ti avvicini all’ingresso. Assumi una specie di posa, infili le mani in tasca e ogni tanto allunghi appena il collo con fare svagato, tentando di sbirciare quel che accade oltre l’entrata che dà sul giardino.
La prima bordata è già in canna. Qualcosa sul taglio di capelli di Armadio. Tipo “Non dirmi che hai pure pagato per farti ridurre così?”, subito dopo aver lasciato che la tipa in miniabito abbia appurato che non sei proprio in nessuna lista.
Immagini le gocce di sangue sulle scarpe e sui pantaloni. Immagini macchie rosse anche sull’asfalto.
Poi immagini una ginocchiata allo stomaco.
Tanto per gradire.
Sono quasi sei mesi che passi i sabati mattina liberi dal lavoro in parcheggi d’interscambio. Seduto in auto, ascolti la radio. Scaldi il sedile. Batti le dita sul volante.
Passi ore a osservare la scansione delle piazzole di sosta delle auto e come vanno riempiendosi e svuotandosi secondo schemi sconosciuti, che mutano minuto per minuto.
Anche se sono passati quasi sei mesi, l’aletta parasole è ancora abbassata dal lato del passeggero. Lo sportellino che copre il piccolo specchio rettangolare è ancora sollevato. Ancora i suoi capelli, uno o due, sottili e ondulati, sullo schienale e sul poggiatesta del sedile.
E così torni a pensare a lei.
E non è che tu non ci abbia provato. A fare quello che tutti dicono vada fatto in queste situazioni.
Razionalizzare. Raffreddare. Distanziarsi.
Chiudi e sigilla quella porta. Te l’hanno detto tutti. Fattene una ragione.
In fondo non sei il primo, patetico coglione che veste panni simili.
Questo non te lo hanno mai detto, ma è un sottotesto che non hai faticato a percepire.
Trascorri gran parte del tempo non dedicato ai doveri quotidiani da solo. In attesa di un qualche evento decisivo che non ne vuol saperne di accadere. Ti accontenti di trovare nuove zone d’ombra e altri angoli morti. Resti a presidiare spazi vitali in camere vuote. Guardi la città che brucia dall’alto di una collina.
Ma poi arriva chissà da dove, quasi sempre a tradimento, un’anamorfica improvvisa, un primo piano angolatissimo del suo viso. A meno di cinque centimetri dal tuo.
Allora misuri la tua stanza a passi tardi e lenti. Mordi la federa del cuscino dopo averlo preso a pugni. Mormori a ripetizione il suo nome abbracciando strette le ante dell’armadio.
Tuo malgrado, la materia che la costruisce è diventata eterna.
Le braccia di Armadio scattano in avanti e le sue mani aperte ti spingono. Le spalle accusano ma tu ti smuovi appena.
Questo è stato solo un avvertimento. Una spinta leggera. L’equivalente di un buffetto o di un pizzicotto, o poco più. Armadio torna subito in quella che è la sua posizione base. Braccia conserte. Viso privo di espressione. Una sfinge crestata che guarda fisso una spanna sopra le tua testa.
Nonostante la cresta scenografica, Armadio è un professionista. Non un bullo da strada ripulito e imbellettato. C’è odore di agenzia specializzata. Di preparazione specifica. Di addestramento. Magari anche di un passato militare. Insomma, Armadio è uno che, preso nella maniera giusta, può dare grandi soddisfazioni.
Così torni a farti sotto. Un passo e mezzo, frenando lo slancio per arrivare a sfiorare appena la punta delle sue scarpe con le tue.
«Avanti, non facciamola lunga, fammi entrare.»
Glielo soffi praticamente in faccia, alzandoti sulle punte.
Stai violando la sua bolla d’aria. Lo stai facendo deliberatamente. Lasci che le leggi della prossemica lavorino per te.
Armadio arretra di mezzo passo, sciogliendo le braccia lungo il corpo. Lo incalzi, badando a tenere la distanza appena sotto la soglia di quei fatidici quarantacinque centimetri che costituiscono la cosiddetta sfera d’intimità.
Poi ti giri spalancando le braccia, tenendole ben sollevate. Inerme come un lombrico che ha appena smesso di agitarsi sull’amo.
Non sto facendo niente di male, è lui che cerca rogna, sono un bravo ragazzo, io.
Gli spettatori sono almeno una dozzina, assiepati un paio di metri più indietro. Facce da venerdì sera. Espressioni già lessate da vari giri di aperitivi e chiacchiere inconcludenti.
Ti giri di nuovo verso Armadio e accenni a oltrepassarlo con uno scarto laterale.
Lui fa un mezzo passo alla sua destra e ti blocca nuovamente la strada. Tenti una leggera spinta, ma non lo sposta di un millimetro.
Cerchi di nuovo di sfilargli di lato, e questa volta ti blocca, afferrandoti il braccio sinistro con una presa fulminea. Poi, con una torsione decisa ma controllata, ti porta il braccio dietro la schiena e ti costringe a girarti, sicché sei di nuovo con la faccia rivolta al pubblico.
Ancora facce da venerdì sera.
Smorfie di delusione per la forse momentanea esclusione dalla festa che si sta svolgendo a pochi passi si mescolano all’attesa, un po’ febbrile e un po’ malsana, per quel accadrà tra poco.
È davvero bravo. Nonostante la stazza, è stato rapidissimo. Composto. Efficace. Meglio se te la giochi tutta adesso che ti tiene sotto scacco.
Cerchi di assestargli una tallonata sullo stinco destro, buttando contemporaneamente la testa all’indietro, per beccarlo al mento o al petto. Colpisci solo la gamba, e neanche troppo forte per i suoi standard. Lui si limita a torcerti con più energia il braccio dietro la schiena e ad afferrarti la nuca. Non ti resta che una soluzione: sollevi la gamba sinistra e gli pesti il piede con tutta la violenza di cui sei capace.
Qualche faccia da venerdì sera accenna a farsi avanti. Forse per intervenire. Forse solo per godersi meglio lo spettacolo. Ma poi Armadio, facendo leva sul braccio imprigionato, ti fa di nuovo girare verso di lui.
Adesso carica e spara, pensi. Chiudi gli occhi e trattieni il respiro, pronto a sputare sangue e muco.
Invece Armadio ti afferra il collo della camicia con entrambe le mani e ti tira verso di sé. Ti solleva di peso, finché non ti trovi in punta di piedi, quasi fronte contro fronte.
La classica intimidazione terminale che precede la rappresaglia massiccia.
Però sei tu che passi all’azione, prima che lui possa darti un’altra possibilità e lasciarti andare.
«Ti amo. Parliamone», gli sussurri.
Gli stampi un bacio appiccicoso sulla punta del naso, che poi cominci a solleticare e a leccare. Ma è solo quando accenni a mordicchiarglielo che reagisce in maniera soddisfacente.
Ti colpisce. Sempre molto composto ed elegante nelle movenze, apparentemente senza sforzo alcuno, ma la potenza è quella di un fabbro che picchia su un’incudine. Ti assesta un montante destro alla bocca dello stomaco, continuando a tenerti per il colletto con l’altra mano.
Il secondo colpo è una ginocchiata all‘inguine.
Poi ti lascia il colletto e finalmente puoi crollare. Il rumore delle rotule che si schiantano all’unisono sul cemento è secco. Come quello di un lucchetto ben oliato che si chiude. Inarchi la schiena in avanti, prostrato verso la Mecca del tuo annientamento radicale.
Appoggi la fronte all’asfalto. Chiudi gli occhi, supplice.
Aspetti il colpo di grazia.
Rivedi un suo biglietto di auguri, quello che usavi come segnalibro: una frase che riprende un titolo di un libro di Carver, e il suo nome, come un breve tracciato cardiografico, armonico e perfetto.
E poi ti torna davanti agli occhi un dettaglio della sua mano, la sinistra, sollevata all’altezza del petto. Il dorso verso l’interlocutore, che poi eri tu. Le dita unite che puntano verso l’alto, corte e sottili. Unghie divorate alla radice. Anulare e mignolo leggermente flessi. Un gesto spontaneo, compito e composto. Forse sta esprimendo diniego o incredulità. Forse sta solo rafforzando un passaggio del discorso.
E un attimo dopo, taglio di montaggio forse non impeccabile, eccola che ti sta ascoltando, con un’aria complice e curiosa. Di fianco a lei qualcuno che entrambi conoscete solo superficialmente sta parlando dell’ultimo CD che ha comprato.
Eravate al compleanno di una sua amica. Un pub dove suonavano musica dal vivo. Una serata piovigginosa. Avevi avuto la conferma che il reggae ti annoiava da morire.
E poi, le sue braccia attorno alle tue spalle quando uscite dal locale. Il tuo indice che le sfiora le labbra quando vi salutate. Ricordi bene anche quello.
Il colpo di grazia. Non arriva. E nemmeno le lacrime.
Invece arriva qualcuno che ti afferra sotto le ascelle e ti aiuta ad alzarti. Un capannello fitto di persone ti sta addosso. Sudore, acqua di colonia e vapori alcolici ti invadono le narici.
I tuoi sollevatori ti fanno indietreggiare di qualche metro dall’ingresso, sempre tenendoti per le ascelle.
«Che cazzo t’è preso?» ti domanda qualcuno appoggiandoti una mano sul petto. Noti solo che porta al polso un grosso cronografo in oro e acciaio.
Riesci a biascicare timide scuse. Ti divincoli. Barcolli prima in avanti e poi indietro, cercando di allontanarti. Un paio di levriere upper-fashion si scostano al tuo passaggio. Un’altra ti scatta una foto con l’iPhone. La mandi a fare in culo, ma solo col pensiero.
«Ti conviene andare prima che arrivi la polizia», dice Cronografo. Ti cammina a fianco ancora per qualche passo prima di lasciarti al tuo destino.
Annuisci. È come se un elefante ti avesse camminato sulla bocca dello stomaco. Crampi acuti che diffondono dolore puro e intensissimo.
Ti dirigi a passi incerti verso il parcheggio. Respiri piano, strascichi i piedi finché non trovi un cordolo spartitraffico. Ti ci siedi. Anche le ginocchia hanno iniziato a reclamare. Scruti l’asfalto del parcheggio attorno alle tue scarpe.
Ripensi a passi leggeri sull’erba fresca e tenera, a sbuffi di nuvole che si tingono di rosa pallido, al tramonto che inonda i vostri vuoti più profondi. La luce come un fluido, attraverso cui respirare. E poi alla luna, radiosa ed enorme dopo un timido temporale di giugno.
Sfiorarsi le mani, ma non subito. Tutto fluirebbe e scorrerebbe attraverso i vostri nervi, le ossa, la pelle, e i capelli di lei, tessuti in trame di solstizio.
«Avanti. Lascia andare. Falle uscire.»
Ti esce in una specie di guaito strozzato che non turba il silenzio del parcheggio.
Digrigni i denti e strizzi gli occhi mentre porti le ginocchia al petto.
Un filo di saliva ti cola dalla bocca. Un fiore dai petali gelatinosi sboccia sull’asfalto tre le tue scarpe.
«Piangi, stronzo. Piangi.»
Te lo stai ringhiando addosso.
Nulla accade. Come al solito.
***
Robin Tunney è un’attrice americana. Classe 1972.
Interpreta l’agente del California Bureau of Investigation Teresa Lisbon nella serie The Mentalist. Magari qualcuno la ricorda anche in Supernova, mediocre pellicola fantascientifica del 2000, dove si esibiva nuda in un fugace amplesso a gravità 0 prima di venir tolta dalle spese dal cattivo di turno.
Ora è proprio una Robin Tunney di Supernova, gli stessi profondi occhi verdi e gli stessi capelli corti e corvini, quella che sta terminando di immobilizzarti il polso destro con una garza semirigida, viscida e fredda, che odora di gomma.
Non siete nello spazio profondo, però. Siete nel vano posteriore di un’ambulanza ferma a bordo strada, appena fuori dal parcheggio dell’Aperte Virgolette. E lei non è nuda, ma indossa una tuta della Croce Rossa.
L’altro paramedico sta assistendo il dottore, intento a controllare le pupille di un tizio seduto sul predellino. Si sente stonato, dice. Gli gira tutto. Non ha preso nulla. Un paio di Vodka Tonic. Non di più.
«Dicono tutti così», ti spiega Robin, mentre controlla le graffette che tengono stretta la fasciatura. Lo dice anche questa volta in italiano. E l’accento non è proprio californiano. Sempre del Centro, diresti. Marche o Umbria.
«E lei, invece, che ha combinato?» ti chiede.
«Sono scivolato, uscendo dalla toilette», menti.
«Cose che capitano», dice, ma non credi l’abbia bevuta.
Il buttafuori all’entrata dell’Aperte Virgolette si è limitato a una spinta. Minima energia. Pochi chilogrammi per secondo, ma è bastata a farti incespicare malamente all’indietro fino a farti cadere. La mano destra ha toccato terra per prima, aperta per ammortizzare la caduta. Ti è parso di aver sentito quel crack sonoro e gagliardo che prelude a una frattura.
Tenendoti il polso in grembo, hai raggiunto l’ambulanza, ferma come ogni sabato notte appena fuori dal parcheggio di uno dei locali più frequentati della zona per fornire assistenza ai reduci della movida.
«Ha sentito il medico, no?» ti sta dicendo Robin. «È una slogatura. Niente di rotto. Tra quindici giorni può togliere la fasciatura.»
Si avvicina e ti mette in mano un blister con due antidolorifici.
«Può darsi che stanotte le faccia un po’ male.»
Fiuti tracce di deodorante evaporato.
Un odore familiare. Fino a nove mesi fa ti capitava di annusarlo spesso. Dalla stessa distanza, spesso anche più da vicino.
«Grazie.»
Questa volta le sorridi. Lei ricambia. È carina, davvero.
C’è qualcos’altro che vorresti dirle?
È che dovresti cercarlo in un posto sepolto dove non ti avventuri più da tempo.
Così non dici nulla, scendi dalla barella, esci dall’ambulanza e pensi che magari puoi aspettare.
Fino alla prossima medicazione.
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Puoi leggere un altro racconto di Francesco Zanolla qui oppure curiosare nel suo blog.