Lacrime di terra di Andrea Rigato

Lacrime di terra, racconto del concorso Figuracce

Continua la rassegna settimanale dei 12 racconti finalisti del concorso de Il Portolano con Lacrime di terra. Quello di Andrea Rigato è uno dei quattro testi che la giuria ha segnalato con menzione durante la premiazione del concorso Figuracce e saranno pubblicati in ordine alfabetico per titolo.

Buona lettura!

LACRIME DI TERRA

Tra le cose singolari e decisive di quei memorabili primi giorni del Liceo accadde che a noi della Prima “F” fu assegnata una professoressa di Lettere che oltre all’Italiano e al Latino ci avrebbe insegnato anche Storia e Geografia. In tutto quattro materie, un’enormità.

La Degiampietro era una vecchina austera, con una voce un po’ stridula che riusciva però a suonare soave. A noi sembrava avanti con gli anni, perché portava i capelli bianchi raccolti in uno chignon e vestiva sempre come una nonna che esce la domenica per andare a messa. In realtà aveva poco più che sessant’anni, e in quella scuola avrebbe insegnato ancora a lungo. Aveva occhi chiari, quasi grigi, luminosi e vivaci tra le piccole rughe del viso, nascosti appena da occhialini che a volte le cadevano sul naso.

Non era sposata, e si capiva da certi suoi sguardi, con un che di rimprovero e rimpianto insieme, che ai tempi della sua giovinezza tra ragazzi e ragazze vigevano altre consuetudini.

Lei degli uomini non si era mai fidata, lo diceva con una punta di orgoglio, e qualche volta ammoniva le mie compagne a stare in guardia dai divertimenti e dagli amori facili. Dalla voglia, soprattutto, di diventare grandi in fretta.

Queste cose però ce le avrebbe dette più avanti, nel corso dell’anno. I fatti si svolsero invece all’inizio della scuola.

Antonio Bortoluzzi, Presidente di giuria, e Andrea Rigato

Era la prima lezione di Geografia, e la Degiampietro stava illustrando la struttura del pianeta. Dal mio banco in penultima fila pensai che la mia tesina sui vulcani, preparata in terza media, avrebbe forse potuto interessare i miei compagni.

Chissà perché poi avevo questa fissa dei vulcani. Erano per me una vera passione: alla tivù non mi perdevo un documentario. Lo spettacolo delle eruzioni mi affascinava, e forse anche l’idea che la terra avesse ogni tanto bisogno di sfogarsi, di buttar fuori qualcosa, di vomitare i propri guai. Magari invece attraverso gli occhi tondi dei crateri la terra guardava il cielo, e anche a lei poteva capitare certe volte di cogliere l’incanto di un passaggio veloce di nuvole al mattino, o il volo in formazione di uno stormo di rondoni, nel riflesso viola e arancio della luce di un tramonto. Forse la terra aveva un’anima. Forse immaginava il mare, e le capitava di commuoversi, chi lo sa. Forse le colate di lava dei vulcani non erano altro che questo, il pianto della terra.

Resta il fatto che quel giorno mi proposi all’insegnante per riferire ai miei compagni dei vulcani. Lei si dimostrò entusiasta dell’iniziativa, e qualche giorno dopo mi ritrovai così seduto in cattedra al suo posto, a rivelare alla classe le segrete meraviglie dei conoidi eruttanti.

Parlai per quasi un’ora del mio cavallo di battaglia. Alla fine dell’esposizione l’insegnante si complimentò e mi indicò come modello da prendere ad esempio. Poi aprì il registro, tolse il cappuccio alla sua stilo e scrisse un voto, declamandolo a gran voce. Otto.

Otto in Geografia. Era il mio primo voto al Liceo. Avevo iniziato alla grande, con la professoressa che ci avrebbe seguiti quasi quanto una maestra. Mi sentivo trionfante, mi sentivo già promosso in seconda.

Quel giorno uscii da scuola con addosso un senso di vittoria. Quel luogo, in cui tutti mi sembravano già grandi, ormai mi apparteneva, avevo passato una specie di esame di ammissione. Ero al Liceo e stavo diventando grande, era evidente. Mi affacciavo alla vita degli adulti e l’avevo fatto nel modo migliore. Quel mondo dei grandi non mi avrebbe più potuto respingere. Era rassicurante. Era eccitante.

Per tutto il pomeriggio vagabondai a piedi per il centro, con le mani in tasca, rientrando a casa giusto in tempo per la cena. Prima di addormentarmi diedi un’occhiata al diario, per controllare le materie del giorno successivo. Avremmo avuto ben tre ore con la Degia, ormai la chiamavamo così, due di Italiano e una di Storia. Mi addormentai beato.

L’indomani le due ore di Italiano se ne andarono veloci. Osservando la Degia pensavo che a quella donna minuta, a quella maestra elementare trapiantata in un Liceo, volevo bene. Un bene istintivo e definitivo. Suonò la campanella dell’intervallo, ma io sarei rimasto per sempre lì con lei ad ascoltarla. Amavo quella donna.

Dopo la ricreazione, iniziò l’ora di Storia.

«Oggi interrogo». La Degia disse solo questo, e io ebbi il presentimento della catastrofe imminente.
La Degia non aveva mai interrogato. Mi chiamò per primo, lo fece apposta.

Forse avrei dovuto dirle subito la verità. Dei Sumeri non sapevo niente. Niente delle loro usanze, dei loro sovrani, delle loro guerre, dei loro fiumi, delle loro schifose città. Nulla, il nulla assoluto.
Invece le provai tutte per rimanere a galla, e feci peggio. La Degiampietro mi smontò, mi fece a pezzi, mi sgretolò.

Ammisi solo alla fine, quando ormai era chiaro a tutti, di non aver studiato.

Per la seconda volta in due giorni la Degiampietro annunciò il mio voto sul registro, ma stavolta nella sua voce c’erano amarezza e delusione. Cinque meno.

Alla fine dell’ora lei uscì dall’aula a passo di carica, col registro sotto il braccio. Io nascosi il viso tra le mani e piansi.

Piansi per quell’insufficienza, la mia prima insufficienza. Per i rimproveri certi di mio padre. Per la vergogna di aver deluso quella donna. Per le lacrime che non volevano smettere di scendere. Per quei rigagnoli sulle guance che provavo a tamponare con le mani. Per la figuraccia di piangere come un bambino di fronte ai miei compagni, perché i grandi non piangono, e io volevo diventare grande. Avrei voluto già esserlo, grande e forte. Uomo fatto e finito, con la barba e tutto il resto, con una vita nel mondo dei grandi. Una macchina, un lavoro, una moglie a casa ad aspettarmi.

Invece ero soltanto un ragazzino in lacrime.

In quel preciso istante giurai a me stesso che non sarebbe capitato più, non sarebbe più accaduto.
I ragazzini sono strani. Strani e testardi. Si mettono in testa certe cose a volte, e non li smuovi più.

Quel ragazzino fu di parola.

Nei quarant’anni successivi non ho più pianto.

Le emozioni hanno trovato altri percorsi. Groppi allo stomaco, tremori della voce, arrossamenti del viso. Mutismi, soprattutto. Soprattutto quelli.

Ma da allora non ho pianto più.

Non per gli amori iniziati o per quelli finiti, non per un figlio visto e mai nato, non per un padre che se n’è andato.

Non piango più, non son capace. Se le lacrime si formano restano lì, sospese in bilico sull’orlo del burrone. A venir giù però non ce la fanno. Forse non pesano abbastanza per cadere, chissà.

Quell’insufficienza in Storia se le è portate tutte via, lasciandomi ridotto a confidare in future debolezze di vecchiaia, in senili incontinenze dei canali lacrimali.

Perché vorrei anch’io, come capita ai vulcani, potermi perdere un giorno nel passaggio delle nuvole al mattino, o nel riflesso viola e arancio di un tramonto.

Sì, vorrei anch’io, una buona volta, immaginare il mare ad occhi chiusi e sentire qualcosa venir giù.
Qualcosa che di colpo molla, che dentro frana. Che dice che sei grande ormai.

Che ormai è tempo. Che può bastare. Che con le lacrime puoi fare pace.

Tanto alla fine tutte le lacrime se ne vanno a dormire lì.

Nel mare.

Lasciale andare, benedetto uomo.

Coraggio.

Spazio ce n’è.

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