
Per poter vedere il film povere creature, vincitrice del Leone d’oro alla 80esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, si dovrà attendere fino al prossimo 25 gennaio.
Liberamente tratto da un romanzo, scritto trent’anni fa dallo scrittore scozzese Alasdair Gray, rappresenta il settimo lungometraggio del regista greco, Yorgos Lanthimos, dopo La favorita, presentato a Venezia nel 2018, scritti entrambi e sceneggiati da Tony McNamara.
Nell’osservare i commenti critici sul film, mi trovo a scrivere queste righe fuori dal coro dato che sembrano per la maggior parte allineati nel giudicare un capolavoro. Mi viene in mente la favola di quell’imperatore vestito con un tessuto che solo gli stupidi non potevano vedere…
Willem Dafoe interpreta la parte del dott. Godwin Baxter il quale, non a caso, abbrevia il suo nome in God, cioè Dio. Infastidisce vedere il chirurgo, con un grande cuore paterno, con un viso deturpato, in gioventù, dalle sperimentazioni del padre che lo fanno assomigliare ad un novello Frankenstein.
Infastidiscono anche le scene dei suoi collegamenti ad una macchina per poter digerire il pranzo emettendo dalla bocca rumorose grandi bolla dall’intestino.
Mostruoso appare l’intervento operato, dallo stesso dott. God, su di una giovane donna suicida – interpretata magistralmente da Emma Stone – annegata nel fiume, in cinta al nono mese, portata in vita attraverso il trapianto del cervello del suo feto.
La storia sembra venga inventata per far vedere come si comporterebbe un essere umano adulto, con il cervello di un neonato in crescita. Da qui le scene inverosimili di una donna dai passi incerti, per la mancata coordinazione tra gli arti, di una bambina con il corpo di un adulto.
Comportandosi con modi disinibiti, imprevedibili, senza alcun freno, manifesta i suoi istinti, con gesti inconsulti, sputando il cibo davanti a tutti, rompendo piatti e stoviglie. Ma, ciò che sembra aver fatto più scalpore, è il comportamento sessuale.
Si vuole paragonare l’esperimento al racconto biblico della donna nata dal corpo dell’uomo come se la costola di Adamo fosse una dipendenza atavica di uno stato di sottomissione? In effetti sembra che il film, attraverso una delle più straordinarie interpretazioni, con una scatenata Emma Stone, voglia lanciare il messaggio sulla dipendenza e costrizione femminile.
Il nome infatti Bella, di nome e di fatto, sembra voler parafrasare il comportamento delle donne di tutte le epoche, apprezzate solo per l’aspetto figurativo, definite inferiori, isteriche, da controllare sia nel corpo che nello spirito.
Al disgusto per alcune scene, si accompagnano, come per creare maggiore ansietà, le suonate inquietanti di pianoforte, con fastidiosi rintocchi striduli intermittenti che echeggiano continuamente. Iniziando dal bianco e nero, a tratti espressionista, con un grandangolo che distorce le scene, esse ci riportano al colore, man mano che Bella sembra crescere, dall’età dell’innocenza alla maturità, prendendo consapevolezza del proprio corpo e dei piaceri che si scopre ad esso legati.
Nell’intreccio della vita matura della donna, attratto dal suo fare disinibito, si insinua l’avvocato Ducan Baxter, interpretato da Willem Dafoe. Un uomo senza scrupoli, fascinoso quanto manipolatorio, che sembra voler farle scoprire il mondo.
Da Londra si sposta a Lisbona, poi a Parigi; città che fanno da sfondo a questa enorme carica di vitalità di Bella dove il maschio, cialtrone e possessivo, alla fine sembra soccombere, anche a letto, in questa dirompente sessualità della donna con le sue parole: “ora però basta, noi uomini abbiamo dei limiti nei rapporti…”
Ma, proprio qui sorge il dubbio in merito all’interpretazione che sembra venga data del film, dove sorgono spontanee alcune domande:
le scene di masturbazione alla ricerca della scoperta delle proprie sensazioni e piaceri come il sesso sfrenato nella maturità con chicchessia, l’assenza di ogni vergogna dominando il corpo dei propri amanti, manifestano emancipazione, autodeterminazione e liberazione della donna?
Rappresenta una crescita di rivendicazione personale il disinteresse ad ogni regola sociale mostrando con disinvoltura il sesso in una vena dissacratoria? Tutto ciò, serve a rompere gli schemi di femminismo e patriarcato?
Sono le emozioni che cerchiamo di soffocare, nella mercificazione del corpo femminile, che ci allontanano dalla felicità e dalle sovrastrutture con le imposizioni sociali? Oppure l’inadeguatezza sentimentale e l’alone di surrealismo fa emergere l’inconsistenza di una ambigua quanto animalesca sessualità in nome di una libertà di espressione che toglie anche la vena umoristica che il film, a tratti, vorrebbe evidenziare.
Al termine del lungometraggio, sembra che un senso di liberazione e di sollievo pervada il pubblico per tornare alla realtà che il film, con la sua vena fantascientifica, aveva distorto, lasciando inquietudine ed un senso di malessere percepito da alcuni spettatori che escono prima del termine della proiezione.