William Friedkin, un diavolo di regista

William Friedkin Un diavolo di regista

William Friedkin è un regista, sceneggiatore e produttore americano, che ha vestito anche i panni dell’attore in alcuni film e documentari. Nasce in Illinois, il 29 agosto del 1935, e cresce in una famiglia modesta, dove i nonni ebrei, emigrati dall’Ucraina, cambiano cognome una volta approdati in America. La madre è un’infermiera e il padre un ex marinaio che colleziona diverse occupazioni, così che il giovane Friedkin comincia a lavorare presto, con impieghi poco retribuiti, come il barista part time o il pulitore di vetri.

L’amore per il cinema nasce grazie a Orson Wells. Ancora ragazzino vede infatti Quarto Potere e decide che il suo futuro sarà quello di fare film. Ma è più di una semplice diceria, durante il discorso di ringraziamento per la consegna per del Leone d’Oro alla Carriera, alla 70esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2013), Friedkin cita l’episodio, approfittando della lista prestigiosa delle celebrità che negli anni sono state premiate alla kermesse lagunare, fra cui proprio Orson Wells, Leone d’Oro alla carriera nel 1970.

A 16 anni abbandona il liceo e comincia a fare il fattorino per la stazione televisiva di Chicago WGN; in poco tempo, passa dall’ufficio corrispondenza a quello della produzione e conclude la scalata ottenendo la regia e, grazie a una concatenazione di eventi, dirige il documentario The People vs Paul Crump che segna la svolta alla sua carriera. È il 1962, Friedkin si dedica ad un caso quasi dimenticato, la condanna a morte di un uomo di colore. Il suo lavoro finisce per rimettere in discussione la sentenza e gli permette di vincere il premio Golden Gate al Festival del Cinema di San Francisco.

Nel 1965 si trasferisce a Los Angeles, dove lavora ad alcuni programmi televisivi, fra cui un episodio della famosa serie Alfred Hitchcock Presents, creata dal genio britannico e conosciuta anche in Italia con il titolo Hitchcock presenta Hitchcock. Il debutto cinematografico è del 1967, con il film Tempi felici (Good Times, 1967), una commedia musicale, dove i protagonisti sono Cher e Sonny Bono, un cantante e produttore di Detroit. Nel 1968 dirige Quella notte inventarono lo spogliarello (The Night They Raided Minsky’s), e nel 1970 Festa per il compleanno del caro amico Harold (The Boys in the Band). Sono film che gli consentono di acquisire notorietà nell’ambiente, portando a casa buoni incassi e consensi dalla critica. Il successo, quello vero, arriva l’anno dopo, nel 1971, con Il braccio violento della legge (The French Connection) che gli fa vincere 5 Premi Oscar (miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista per Gene Hackman, miglior sceneggiatura non originale e miglior montaggio), 3 Golden Globe (miglior film drammatico, miglior regia, miglior attore in un film drammatico sempre per Gene Hackman) e lo impone all’attenzione internazionale.

William Friedkin e Gene Hackman.

Si conferma regista del momento con L’esorcista, nel 1973, che sbanca al botteghino, vince altri 2 Oscar (miglior sceneggiatura non originale, miglior sonoro), anche se manca quello per la regia, 4 Golden Globe (miglior film drammatico, miglior regia, migliore attrice non protagonista per Linda Blair, migliore sceneggiatura per William Peter Blatty) e terrorizza prima l’America e poi il mondo intero. È l’apice della sua carriera e questi due film rappresentano probabilmente anche il vertice della sua abilità registica.

Diventa uno degli uomini più influenti di Hollywood: forte dei successi e della posizione acquisita, si mette in società con Francis Ford Coppola e con Peter Bogdanovich, e insieme fondano la casa di produzione Director’s Company. La loro collaborazione non dura molto e, dopo poco, Friedkin si allontana dal gruppo e il suo ascendente si affievolisce. I film che seguono, tra gli Ottanta e i Novanta, sono controversi, fanno scandalo, sollevano forti contestazioni. Il salario della paura (Sorcerer, 1977) è un flop commerciale, Cruising (1980), con Al Pacino, scatena il malcontento delle associazioni gay americane, e Vivere e morire a Los Angeles (1985) con William Petersen e Willem Dafoe, pur notevole da un punto di vista tecnico, lo trascina in una controversia legale con Michael Mann che lo accusa di plagio verso la propria serie Miami Vice, infine, il thriller patriottico Regole d’onore (2000) finisce per addossargli accuse di razzismo e xnenofobia, provocando contestazioni nei paesi arabi, molti dei quali ne proibiscono la diffusione.

William Friedkin non si ferma e si dedica alla televisione dove, fra i numerosi progetti, gira un episodio della serie Ai confini della realtà (1985) e alcuni episodi della serie CSI (2007 e 2009). La sua curiosità lo porta a sperimentare ambienti differenti dai set cinematografici. Si dedica alla Lirica, curando la regia di importanti opere teatrali, fra cui il Tannhäuser nel 2005 a Los Angeles, Sansone e Dalila sempre nel 2005 a Tel Aviv, Salomè nel 2006 a Monaco di Baviera, e in Italia l’allestimento dell’Aida di produzione del Teatro Regio di Torino, nella stagione lirica 2005-2006.

Torna al cinema con due film, entrambi tratti da opere teatrali del Premio Pulitzer Tracy Letts, Bug (2006) e Killer Joe (2011). Il primo pressoché ignorato, il secondo invece omaggiato da ampi consensi, anche a Venezia dove viene presentato. Nel 2017, sempre a Venezia, alla 74esima edizione della Mostra Internazionale del Cinema, porta un docufilm: The Devil and The Father Amorth, in cui filma un vero esorcismo praticato in una città italiana del Molise.

L’Italia

William Friedkin ha un legame profondo con il nostro paese. C’è un sentimento di riconoscenza per una stagione importante del cinema italiano. C’è anche il piacere di tornare, ogni volta, in un paese europeo dove ha conquistato un nutrito gruppo di estimatori, fra pubblico, critica e addetti ai lavori. L’Italia, inoltre, in più di un’occasione, gli ha riconosciuto il giusto tributo.

Nel 1972, Il braccio violento della legge (The French Connection, USA – 1971) trionfa in America vincendo 5 Oscar e 3 Golden Globe, ma conquista anche il nostro David di Donatello come Miglior Film Straniero. Mentre, ci piace ricordarlo (parlavamo prima di riconoscenza per il nostro cinema), in quell’anno, l’Oscar come Miglior Film Straniero in America viene dato a Il giardino dei Finzi-Contini di De Sica. Nel 2003, il Torino Film Festival organizza una retrospettiva dedicata al suo cinema, recuperando anche i primi documentari da lui girati negli anni Sessanta. In quell’occasione, Friedkin porta al festival una lunga intervista a Fritz Lang, realizzata nel 1975 pochi mesi prima della morte, montata e ristampata appositamente per la rassegna. Nel 2009 vince il Pardo d’onore al Locarno Festival. Sono premi che sottolineano una carriera significativa, ricca di opere capaci di affrancarsi dal suolo americano così caro al regista.

Inoltre, William Friedkin ha sempre dichiarato di amare Fellini, che ha potuto conoscere; di impazzire per i film di Antonioni, in primis Blow Up; di ammirare l’opera di Paolo Sorrentino e in particolare Il Divo e la serie televisiva The Young Pope; di avere per Mastroianni un’ammirazione, soprattutto per le interpretazioni in 8 ½ e ne La dolce vita, un attore che voleva portare nel cast de Il Braccio Violento della Legge, un progetto poi sfumato; di considerare Toni Servillo uno dei migliori attori in circolazione, e di citare, in una lista di nomi celebri con cui gli sarebbe piaciuto lavorare, il nostro Gian Maria Volonté. Atti di stima per una cultura cinematografica che, nonostante le evidenti difficoltà, riesce ancora a segnare qualche punto.

Il regista mostra il Leone d’oro alla carriera. Venezia, 2013.

Il Leone d’oro alla carriera

Una tappa significativa della carriera di Friedkin è il Leone d’Oro alla carriera, consegnatogli, in Sala Grande al Lido, durante la 70esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2013), da Alberto Barbera, allora direttore della mostra, e Paolo Baratta, presidente del Consiglio d’Amministrazione della Biennale. Fra le motivazioni si legge: «ha contribuito, in maniera rilevante e non sempre riconosciuta nella sua portata rivoluzionaria, a quel profondo rinnovamento del cinema americano, genericamente registrato dalle cronache dell’epoca come la Nuova Hollywood. Dopo aver scardinato le regole del documentario con alcuni lavori televisivi impostisi per lo sguardo asciutto, spietato e imprevedibile, Friedkin ha rivoluzionato poi due generi popolari come il poliziesco e l’horror, […] con Il braccio violento della legge (1971)e L’esorcista (1973)».

Vengono ricordati i grandi successi e si parla della sua appartenenza a quel periodo magico del cinema americano che tanto ha influenzato la cinematografia in generale. Altri passaggi sottolineano alcuni suoi aspetti peculiari: «una fedeltà rischiosa ai propri ideali che, allontanandolo dal centro del cinema hollywoodiano, lo ha spinto a cercare nel cinema indipendente quella libertà necessaria a perseguire la ricerca di un linguaggio fatto di spiazzamenti continui, di istinto visivo folgorante, visionario, allucinatorio, eppure insaziabilmente affamato di realtà anche quando sembra perdersi nel delirio cinetico, astratto e perfezionistico delle prepotenti sequenze d’azione e d’inseguimento che caratterizzano la sua opera in maniera emblematica. William Friedkin rappresenta ancora oggi l’esempio di un cinema esigente, intellettualmente onesto, emotivamente intenso, programmaticamente avventuroso ed erratico: un antidoto potente e generoso al crescente livellamento del cinema contemporaneo».

È un premio importante per l’autore americano, soprattutto per la sua dimensione storica. Friedkin riconosce alla manifestazione veneziana un ruolo di guida e testimonianza, sottolineando il valore delle opere che negli anni sono approdate al Lido e la caratura dei registi che sono stati premiati. Nel suo ringraziamento, sentiamo infatti: «Il Leone d’oro alla carriera è qualcosa che non mi sarei mai aspettato, ma sono onorato di accettarlo con gratitudine e amore. […] per la lista di cineasti che mi hanno preceduto, con lavori che io penso vivranno per sempre. Essere nella stessa lista in cui c’è Charles Chaplin, Akira Kurosawa, Orson Wells che ha ricevuto il primo Leone d’Oro, nel 1970, quando è stato istituito, e che mi ha ispirato e portato a fare cinema (il premio istituito nel 1971, venne in realtà anticipato con l’assegnazione di un “omaggio” nei due anni precedenti, assegnati a Luis Buñuel nel 1969 e proprio a Orson Welles nel 1970). Nel 1949 il Leone d’Oro è stato dato a Henri-Georges Clouzot, per un film Manner che ha ispirato questo che avete visto (qui, il riferimento è relativo a Il salario della paura, 1977, che Friedkin, per l’occasione, ha portato in una versione restaurata alla manifestazione e che è stato proiettato durante la serata)». In altri passaggi, continuando a elogiare la manifestazione, parla del cinema e del suo ruolo: «Brecht ha detto: “L’arte non è uno specchio per far vedere la società, l’arte è un martello con cui bisogna dar forma alla società”. Credo quindi che bisogna dare alle persone un’arte che faccia ragionare. […] un critico cinematografico di rilievo, André Bazin, ha posto la domanda “che cos’è il cinema” credo che per 70 anni il Festival di Venezia abbia risposto a questa domanda».

Sempre spulciando nel suo discorso, in un passaggio riferito ancora a Il Salario della Paura, dice: «L’Esorcista è stato un film che direttamente parlava della forza e del potere di Cristo. The Sourcer (Il Salario della Paura) è una metafora. Parla del bene e del male che c’è in ognuno di noi. Parla di persone straniere che non si conoscono che si odiano ma che se non riusciranno a lavorare insieme finiranno per saltare in aria assieme. E questa più che mai mi sembra una metafora del mondo di oggi, dove ci sono persone che non si conoscono si odiano e si minacciano con armi di distruzione reciproca. Ho sempre pensato che le mie paure più profonde, le vostre paure, venissero non da un mondo di fantasia ma da un mondo credibile, dove la divisione tra il bene e il male attraversa tutti quanti, ognuno di noi. Di tutti, Madre Teresa, Gandhi, Martin Luther King, e tutti noi».

Per concludere, c’è anche un attaccamento sentimentale perché molti dei suoi lavori sono stati presentati proprio qui, ottenendo successi di pubblico e di critica, come nel caso di Killer Joe (2011), tanto da fargli dichiarare: «Venezia, specialmente durante la Mostra, è una casa spirituale per me».

William Friedkin e Dario Argento al Festival del Cinema di Roma nel 2015.

Friedkin uncut, il documentario

Francesco Zippel – già autore di interessanti documentari dedicati a personaggi importanti dell’universo cinema, come Dino De Laurentiis e Nicholas Ray, che ha già collaborato con lo stesso Friedkin nel 2017, co-producendo il docufilm The Devil and Father Amorth – porta a Venezia, nel 2018, regolarmente in concorso nella sezione “Venezia Classici – Documentari”, un lungometraggio interamente dedicato al regista americano: Friedkin Uncut – Un diavolo di regista (Friedkin Uncut, ITALIA – 2018), di cui cura la regia e la sceneggiatura, a partire da un suo soggetto.

La pellicola di Zippel ne ricostruisce la carriera e i successi, soffermandosi in modo particolare sui due film più rappresentativi, Il braccio violento della legge (The French Connection, 1971) e L’esorcista (The Exorcist, 1973), e ricordando la sua appartenenza alla New Hollywood. Sullo schermo si alternano volti noti, registi come Quentin Tarantino, Wes Anderson, Francis Ford Coppola, Damien Chazelle, il nostro Dario Argento e lo stesso William Friedkin; attori come Matthew McConaughey, Juno Temple e Gina Gershon (che hanno recitato in Killer Joe), Ellen Burstyn (ne L’Esorcista), William Petersen (nel suo Vivere e morire a Los Angeles, e famoso per essere Gil Grissom in CSI); e altri personaggi del mondo Cinema, come Caleb Deschanel che ha curato la fotografia in The Hunt e in Killer Joe. C’è anche lo scrittore e regista Antonio Monda, e altri contributi ancora, con immagini di repertorio e aneddoti da set.

L’opera di Zippel è uno strumento importante per far conoscere un regista che ha sempre avuto il coraggio di perseguire i propri obiettivi, senza preoccuparsi troppo delle mode e insofferente a ogni accomodamento produttivo.

New Hollywood

William Friedkin appartiene di diritto a quel magico periodo cinematografico americano chiamato New Hollywood. Un decennio abbondante che va grosso modo dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli anni Ottanta, da Il laureato (The Graduate, 1967) di Mike Nichols ad American Gigolò (1980) di Paul Schrader.

Alla fine degli anni Sessanta, infatti, negli Stati Uniti, il numero di spettatori frequentanti le sale cinematografiche diminuisce paurosamente, in buona parte per il successo della televisione che condiziona le abitudini delle famiglie; allo stesso tempo, il cinema nazionale si indebolisce per la presenza di prodotti europei, fra cui la nostra commedia e gli spaghetti western, e più in generale per i film della Nouvelle Vague francese – non a caso il suffisso “New” di New Hollywood viene da qui – e di altri movimenti di rinnovamento più o meno strutturati che interessano le cinematografie di molti Paesi.

Questo sconvolgimento si traduce in un periodo di rivoluzioni interne, in cui perdono egemonia i grandi studi cinematografici, mutano i rapporti fra la produzione e la regia che conquista potere decisionale, nascono produzioni indipendenti e soprattutto si fanno strada registi e attori che segneranno la storia del Cinema contemporaneo.
Il rinnovamento è anche tematico, i nuovi film parlano di malessere giovanile, di sessualità e del ruolo sociale femminile, delle minoranze etniche, del Vietnam, mentre il linguaggio si fa più esplicito. Contaminazioni fra i generi e nuovi punti di vista regalano alle pellicole spessore e immediatezza, restituendo la società americana come prima non avevano mai fatto.

William Friedkin entra in questo magico periodo con i suoi due film più rappresentativi: Il braccio violento della legge e L’esorcista. Nel primo, per la maestria tecnica, il rinnovamento apportato al genere poliziesco, la violenza metropolitana mostrata con un realismo senza precedenti, e senza paura di mettere in risalto le incongruenze e i fallimenti di chi dovrebbe fra rispettare la legge; nel secondo, ridisegnando probabilmente il genere horror, con una veridicità visiva, per gli episodi della possessione, e una cupezza generale davvero impressionanti.

Naturalmente, i film sono figli dell’epoca in cui nascono, in questo caso la mutevole società di quegli anni, che comincia finalmente a interrogarsi sulle sue scelte politiche, sociali e militari. Non a caso, alcuni critici hanno sottolineato come questi due film, il discorso vale soprattutto per L’Esorcista, possano essere letti come un tentativo di parlare, in modo metaforico, della guerra in Vietman – grande tema e dramma irrisolto della società americana, e argomento principe della New Hollywood –, dove la generazione adulta che ha portato e sostenuto l’intervento bellico si trova a dover affrontare la ribellione delle giovani generazioni, che l’hanno invece subita sulla propria pelle, e tenta di sedare e vincere questa ribellione con una sorta di esorcismo generazionale.

N.d.R. la seconda parte di questo articolo sarà pubblicata la prossima settimana.

Informazioni su Antonio Varchetta 4 Articoli
Cultore di cinema e narrativa. Ha scoperto l’universo scrittura vincendo il Premio “La Seriola” nel 2009 e ha ottenuto altri riconoscimenti, a Lucca, con il Premio Letterario Nazionale Giovane Holden, e al CRO di Aviano, nell’ambito della Medicina Narrativa. Ha pubblicato racconti in diverse antologie e collaborato con Il Cineforum Studentesco Astori di Mogliano Veneto, organizzando rassegne cinematografiche. Ora cura la rubrica Cinema per Italiandirectory.