Per chi volesse andare a vedere il film vincitore del Leone d’oro alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, raccomanderei di prepararsi sul contenuto onde non ripetere quanto è accaduto alla proiezione in sala della Mostra, dove la parola fine sullo schermo è stata vista da un quarto delle persone presenti all’inizio.
Il regista filippino Lav Diaz, già vincitore due anni fa del Pardo d’oro a Locarno e dell’Orso d’argento a Berlino con “Hele sa Hiwagang Hapis“, è infatti famoso per la durata dei suoi film che, in qualche caso, arriva a nove ore come in “Death in the land of Encantos“, oppure a sette ore e mezza come in “Melancholia“.
In questo film, tratto da un’opera russa del 1872 di Lev Tolstoj, ci fermiamo a 3 ore e 46 minuti. Quindi sarà doveroso prepararsi con lo spirito adatto a ricevere le impressioni del regista filippino, al fine di evitare di annoiarsi aspettandosi film epici o avventurosi. Il modo adeguato di porsi alla visione penso sia quello di prestarsi all’ascolto, nell’attenzione di capire cosa si celi dietro il sipario di un’opera, sinceramente, non sempre apprezzata dal pubblico, come del resto molte delle opere d’arte contemporanee.
Forse la storia in sé, per qualcuno, potrà sembrare banale anche se coadiuvata dal movente politico delle persone che lottano per la sopravvivenza in case fatiscenti, privati dei loro territori, contro lo strapotere e lo sfruttamento da parte dei ricchi proprietari.
Il regista si avvale della fotografia in bianco e nero senza mai concedere alcuna scena al colore, come si è visto in altri film presentati alla Mostra (Frantz di Francois Ozon).
La luce infatti del chiaroscuro padroneggia ed evidenzia la crudezza degli ambienti spogli, strade sporche e maleodoranti, case fatiscenti e la miseria della popolazione. Tali manifestazioni vengono sottolineate dal racconto iniziale che viene letto durante una lezione di gruppo e, alla fine del film con le stesse parole riportate come ricordo di una finestra con la zanzariera strappata dalla quale passavano i topi e gli scarafaggi tra le fessure e una persona all’interno alla ricerca della propria anima e della verità. Su questo filo il regista ci fa notare la dignità della povera gente, credenti nel professare la loro fede, e la proverbiale capacità di accudire il prossimo che possiamo ritrovare anche – per chi ha avuto modo di conoscerle – nell’attuale personale esperienza con gli abitanti delle Filippine.
La storia, se a prima vista può apparire semplice ed ingenua, in realtà lascia trasparire la profonda umanità dei personaggi, la mancanza dei pregiudizi dell’interprete principale Horacia nell’abbracciare la causa di un transessuale malmenato e ferito curandolo in casa. Siamo nel 1997 quando Horacia viene scarcerata, dopo trent’anni di detenzione, per un reato che non aveva commesso. Accusata di omicidio dal suo ex amante, una volta uscita di prigione, si procurerà un’arma per uccidere chi gli aveva rubato ingiustamente trent’anni di vita. Alla fine il colpevole sarà giustiziato da Hollanda, un ragazzo transessuale, che lei aveva accudito, per sdebitarsi delle premure ricevute.
Il film fa leva proprio sui sentimenti umani e sul loro rapporto con la vendetta. Basti pensare al venditore di uova che si trova sempre sulla stessa via aspettando i malviventi che gli hanno ucciso il padre. Toccante il racconto del ragazzo disadattato che scappa di casa per l’incapacità di far accettare la propria condizione di transessuale alla propria famiglia, e anche a sé stesso, scegliendo di vivere in un paese lontano dal suo ai margini della società, preda di gente senza scrupoli.
Il film si chiude con Horacia che parte per Manila alla ricerca del proprio figlio dispensando volantini per tutte le strade, girando su sé stessa insieme alla sua ombra che si proietta sul pavimento coperto dai fogli stampati con le sue richieste di ritrovamento del figlio, come a farci roteare nel dubbio della propria esistenza.
Ad un esame superficiale del film, le scene sembrano durare 4 volte più del tempo necessario, dilungandosi in minuti interminabili. A ben vedere, il regista pone la macchina da presa nell’attesa dell’evento: inquadra ad esempio una strada e, dopo qualche minuto, se ne intravede il soggetto coinvolto nella scena. Così in altri cento fotogrammi di persone ed ambienti interni dove il regista sembra chiedere allo spettatore di osservare prima il contesto e i particolari delle immagini per poi soffermarsi sul contenuto del soggetto. Da qui il lungo lavoro di analisi, impossibile da risolvere con un film dalla lunghezza tradizionale.
Come ha detto il regista Lav Diaz,
La donna è una allegoria dell’umanità che soffre e che non rinuncia a lottare. Questo premio è per il popolo filippino e per la sua battaglia. L’esistenza è fragile, e alla fine, in fondo, noi non ne sappiamo nulla.
Gli altri premi di Venezia 73
La Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile va a Emma Stone nel film La La Land di Damien Chazelle (Usa). Il Gran Premio della giuria va a Nocturnal Animals di Tom Ford (Usa).
Leone d’argento per la migliore regia ex aequo a Amat Escalante per il film La Region Salvaje (The Untamed) e a Andrei Konchalovsky per il film Paradise.
Il premio Orizzonti per il miglior film va a Liberami di Federica Di Giacomo (Italia, Francia). La Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile va a Oscar Martinez nel film El Ciudadano ilustre di Mariano Cohn e Gaston Duprat (Argentino, Spagna).
Il premio per la migliore sceneggiatura è andato a Noah Oppenheim per il film Jackie di Pablo Larrain (Regno Unito). Il premio Marcello Mastroianni per una giovane attrice emergente è andato a Paula Beer nel film Frantz di Francois Ozon (Francia).
Infine, il premio speciale della giuria a Venezia 73 è andato al film The Bad Batch di Ana Lily Amirpur (Usa).