
Giuseppa riassume la sua vita in quattro sì e un no: dove la porterà questa riflessione?
Il racconto di Francesca Zanette si struttura in una accattivante alternanza di presente e passato, di descrizioni e riflessioni, con una scrittura attenta e caratterizzante questa donna semplice che, seduta vicino a una statuetta di Rodin, ripercorre i fatti che hanno segnato le svolte della sua vita.
Dopo averlo letto, sarete curiosi di scoprire e contare quanti “sì e no” determinano la vostra vita di oggi. Buona lettura!
UNA VITA
Sentì il tocco delle cinque e pensò che la sua vita poteva riassumersi in quattro sì e un no.
Allungò le gambe per controllare il gonfiore delle caviglie e si alzò dalla sedia; due passi la dividevano dalla finestra che dava sulla piazza. Sbirciò per qualche minuto tra le tende, poi tornò al suo posto. Su ordine del medico a intervalli regolari faceva il giro dell’unica stanza di cui era composto il museo.
“Forse sono già molto vecchia” pensò Giuseppa guardandosi la gonna color mattone.
Trascorreva le ore di guardia a due quadri e una statuetta uscita (così si diceva) dalle mani di Rodin.
Guardò l’orologio. Di tanto in tanto le capitavano ricordi sparsi, per lo più odori d’infanzia. Tuttavia, l’idea di passare in rassegna il passato non l’aveva mai sfiorata fino a quel giorno, parendole troppo letteraria.
“Quattro sì e un no” si disse.
Un uomo e una donna entrarono parlando a voce alta finché si accorsero di lei. Le braccia dietro la schiena, l’uomo osservò un quadro da vicino, da lontano, poi sfiorando la tela con il naso. Infine inclinò la testa e disse: «Bah.»
«Dov’è il resto?» chiese la donna sventolando la guida.
«Questo è tutto» rispose Giuseppa fissando il muro di fronte a lei. Nonostante l’abitudine ai turisti, si sentì meglio non appena se ne furono andati.
Osservò una fila di formiche lungo il battiscopa e ricordò di quando trentun grembiulini neri ascoltavano la loro prima ora di lezione, molti anni addietro.
«Ti piace il tuo nome Giuseppa?» chiese la maestra durante le presentazioni. La bambina occupava il banco in terza fila e aveva il vizio di arrotolarsi i capelli sul dito indice.
«Rispondi cara, ti piace il tuo nome?»
Un respiro profondo ed ecco il primo “Sì” uscire dalla sua bocca, senza che lei potesse farci nulla. Un “sí” malvagio che le rovinava il piano di farsi chiamare Gisella dalle nuove compagne.
«Sì» rispose con gli occhi bassi sul calamaio.
«Bene!» La maestra batté le mani d’entusiasmo. «Ti chiameremo dunque con il tuo nome, nessun diminutivo. Capito bambini?»
Giuseppa serrò le labbra: c’erano Anne, Marie, Rosselle, tutte deliziose nelle loro scarpette. Al contrario, come poteva una Giuseppa essere bella?
Suonò il campanello. Ogni giorno alla stessa ora l’impiegato del comune le lasciava sullo zerbino la lista delle commesse per l’indomani, sgattaiolando via prima che lei potesse far domande.
Giuseppa recuperò il foglio e senza leggerlo lo infilò in tasca. Prese la scopa dallo sgabuzzino e si mise a spazzare; dava spintarelle alla polvere raccolta lungo i ghirigori del pavimento che conosceva a memoria.
Alzò lo sguardo: trent’anni in quel museo le avevano fatto capire che i posti sanno inghiottire le persone.
«E tu vorresti tenere il bambino?» le chiese mentre si puliva le mani sulla tuta da lavoro.
«Sì» rispose lei guardandolo negli occhi.
«Ridicolo!»
Giuseppa restò il silenzio, le mani lungo i fianchi. Lui le guardò l’abito a fiori e le scarpe bianche. Diede un calcio al un barattolo di vernice urlando: «Mi chiederai anche di sposarti adesso?»
Fu allora che si accorse del solco sulla fronte di lui, del suo mento sfuggente e notò la forma del naso; fece un passo indietro.
«No, non voglio sposarti.»
«Però vuoi il bambino.»
«Avrò il bambino.»
«Da sola non ce la farai.»
Giuseppa gli guardò le mani sporche, sentì la nausea salirle alla gola e corse fuori.
Giuseppa ripose la scopa e si rimise sulla sedia. Allungò le gambe e notò una nuova crepa sulla parete di fronte a lei; incredibile fosse passato tanto tempo da quel “sì”.
«Dunque cos’ha deciso di fare, accetta il lavoro?»
Il mobilio in ebano, il doppio petto dell’assessore e l’ondeggiare della sua sigaretta.
«Sì, accetto» rispose guardandosi i piedi. Da fuori giungevano i rumori del mercato e odori mischiati.
«Davvero ragionevole da parte sua, Giuseppa; la scelta migliore per lei e il bambino.»
Personaggi di vecchie stampe osservavano la scena dall’alto della parete; Giuseppa avrebbe giurato di aver visto un putto piangere.
«Venga l’accompagno sul posto.»
Uscirono dall’ufficio del comune. Giuseppa fissava i talloni dell’assessore che la precedeva; i pantaloni troppo corti scoprivano le caviglie a ogni passo.
«Consideri che una vita tranquilla è ciò che tutti vorrebbero.»
Camminarono lentamente attraverso il parquet del corridoio, le scale di marmo bianco, le piastrelle dell’ingresso. Inspirò a fondo prima di infilarsi tra la gente.
Lo sguardo piantato a terra, Giuseppa riconobbe i sanpietrini di via Roma, il ciottolato del corso, porfido della piazza, i sassi di un piccolo cortile, due scalini in pietra, il pavimento del museo.
«Qui starà bene, finché non si abitueranno al bambino» le disse l’assessore, chiudendo la porta dietro di sé.
Una donna si affacciò all’uscio tenendosi aggrappata alla tracolla della borsetta.
«Sono ancora in tempo?» chiese muovendo un passetto in avanti.
«Il museo chiude tra mezz’ora.»
La signora annuì, ben sapendo che la sua visita non sarebbe durata che pochi minuti. Giuseppa pensò che lei poteva essere l’ultima e cercò di fotografarla nella sua mente.
Il ragazzo era il primo visitatore di quella giornata. Teneva le spalle raccolte, come avesse freddo. Posò a terra il borsone, frugò nei pantaloni. Giuseppa capì che aveva viaggiato molto, perché rughe sottili gli addolcivano l’espressione del volto.
«A chi devo i soldi del biglietto?»
«Non si paga.»
Il ragazzo osservò una tela, poi l’altra, passò alla statua, sbirciò dalla finestra, tornò al primo quadro e stette lì per lunghi minuti. Ciondolava sulle gambe, come in ipnosi.
«Se ne era mai accorta?» chiese restando con le spalle girate.
«Sì» rispose Giuseppa a testa bassa.
Il ragazzo si voltò: «La stessa espressione, gli stessi vestiti.»
«Esatto.»
«Pare siate coetanee, gemelle.»
«Già.»
«Non può essere lei il soggetto, il quadro ha cent’anni.»
Mentre parlava si tormentava la barba; riguardò il dipinto, poi Giuseppa, di nuovo la tela.
«Ma l’ha fatto di proposito?»
«È successo senza che me ne accorgessi.»
Il ragazzo puntava ora il soffitto, ora il quadro, ora le sue mani.
«Signora lei se ne deve andare via da qui. Perdoni l’invadenza» continuò, camminando su e giù per la stanza «ma se io mi accorgessi di essere diventato tale e quale il soggetto di un quadro scapperei di corsa. In realtà, questo glielo confesso, non mi fermo nella stessa città per più di tre giorni.» Si avvicinò alla finestra per prendere una boccata d’aria e aggiunse «Certo avrebbe ragione a dubitare, che il consiglio di scappare le viene da uno che fugge, ma è la prima volta che…»
«Ho paura» lo interruppe Giuseppa.
«Tutti ne abbiamo, questo non significa nulla.»
«Forse potrei cercare mio figlio» disse Giuseppa incrociando per un istante gli occhi del ragazzo.
La signora se ne andò, dopo quasi mezz’ora. Giuseppa si alzò con un sospiro, lisciandosi la gonna. Chiuse la finestra, accostò le tende.
«Lo so che ora ti arrabbierai con me» disse accarezzando la schiena dell’omino Rodin. «Avevo promesso di non lasciarti.» Baciò la statuetta, raddrizzò una delle due tele.
Giunsero i rintocchi delle sei, mentre recuperava borsa e giacca nello sgabuzzino delle scope. Guardò la stanza. Estrasse dalla tasca il foglio delle consegne, lo strappò e lo posò sulla sedia.
Quando uscì, chiuse la porta senza fare rumore.
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