Brivido, terrore, raccapriccio. Sono tre parole che ci riportano al mondo del fumetto: Cattivik, macchia d’inchiostro facente funzione di ladro in calzamaglia dall’aspetto grottesco, è impegnato in complessi piani criminosi che non sortiscono mai l’effetto voluto. Nel caso di Stato di famiglia, invece, piani premeditati o scelte dettate da attimi di follia producono azioni che hanno agghiaccianti conseguenze e, proprio per questo, infondono nel lettore brivido-terrore-raccapriccio.
Il libro di Alessandro Zannoni è caratterizzato da un crescendo di tensione che si alimenta con la fame di sapere chi-farà-cosa nel capitolo successivo; sono schiaffi in faccia che fanno sanguinare il labbro, sono pugni allo stomaco che lo trasformano in un groviglio di dolore, sono lame che spezzano il cuore e ogni sentimento, eppure è “tutto vero” ed è scritto in modo così coinvolgente che il lettore deve solo decidere se affrontare una lettura a piccole dosi oppure infilarsi nel tunnel e percorrerlo tutto, fino alla fine, fino a sentire il bisogno di uscire all’aria aperta e respirare.
Con una scrittura magistrale, chirurgica -come è stata definita dalla giuria del Premio Festival Giallo Garda-, Zannoni compone una sequenza fotografica acritica, mostra i fatti, accenna a pensieri intesi e sottointesi, lasciando a chi legge la cerca dell’incrinatura in cui si insinua il seme della follia, quell’attimo di incoscienza che fa passare dal bene al male, dove il male diventa il bene inteso come unica possibilità di risoluzione.
C’è un dialogo significativo nel film Quel treno per Yuma (3:10 to Yuma, tratto dal racconto di Elmore Leonard e diretto da James Mangold, 2007) di cui riportiamo alcuni scambi (*):
– Perché hai ucciso Tucker? Perché non me, o Butterfield?
– Beh, Tucker mi aveva preso il cavallo. Ti era simpatico?
– No.
– Se non sbaglio, ti aveva incendiato il fienile.
– Era una carogna. Un conto però è volerlo morto, un altro è ucciderlo.
È esattamente questo: Zannoni mostra il superamento del limite che spiega l’ultima frase del dialogo riportato. Si può voler male a qualcuno al punto tale di desiderarlo morto, ma arrivare a compiere l’azione di uccidere (o uccidersi) è tutta un’altra faccenda; inoltre, la questione si amplifica se si immagina che ogni personaggio mostra la sfaccettatura di una dinamica famigliare in cui può succedere di sentirsi coinvolti. L’abilità dello scrittore ligure è quella di ricostruire i fatti che determinano la scena finale di morte.
(*) il dialogo è presente nel film, non nel testo di Leonard Three-Ten to Yuma del 1953.
Questione di genere
Stato di famiglia vince il Premio Giallo Garda 2019 con queste motivazioni:
Com’è possibile arrivare a tanto?
È questa la domanda che assale tutti all’ascolto delle cronache di certi giorni. In questo romanzo l’autore entra nella scrittura come fosse in sala operatoria – luce accecante e bisturi nelle parole – rigirando il pensiero del lettore fino a farlo sanguinare con le realtà di quei fatti.
Magistrale.
Condividiamo ogni parola che giustifica il meritato premio ma è proprio questa premiazione a creare due fraintendimenti. Il primo: Stato di famiglia non è un romanzo ma un’antologia di racconti; il secondo: non sono gialli. Sulla questione di genere c’è stato un interessante “fuori intervista”, a cui ora accenniamo, e due “richiami” sull’uso dei termini, che abbiamo lasciato nell’intervista.
Proviamo a far luce sul primo punto: è evidente che Stato di famiglia è una raccolta di sette racconti, ogni racconto porta il nome della persona che sarà protagonista del racconto, ogni personaggio è slegato l’uno dall’altro. Se, però, decidessimo che il titolo è il filo conduttore di ogni racconto, che la famiglia -rappresentata in sette variazioni di “tragedie contemporanee”- compatta i racconti in un corpo unico, lo si può immaginare come romanzo?
Per noi, ancora no.
Veniamo alla seconda questione: giallo o nero? Non c’è nessuna azione investigativa, perché Zannoni non si occupa del dopo, a lui interessa raccontare il prima; c’è più una traccia noir, per l’aspetto psicologico dei personaggi, che emerge dalle loro azioni e dalla violenza che si legge, anche quando non è scritta.
Quindi, cos’è? Zannoni, che preferirebbe non ci fosse questa sorta di obbligo di essere definito -lo scrittore è ribelle tanto quanto la sua scrittura è essenziale- usa la definizione di letteratura nera che noi, dopo l’incontro con lui, siamo contenti di poter utilizzare.
A voi le conclusioni sul valore del libro: non è un romanzo, non è giallo, eppure la giuria del Festival Giallo Garda 2019 sceglie Stato di famiglia.
Stato di famiglia
Il libro è un’antologia di racconti scritti con una tecnica narrativa, un ritmo e una lingua -asciutta ed essenziale- che mostrano una grande capacità di scrittura e una altrettanto grande efficacia nella narrazione. Il ritmo e il linguaggio cambiano con lo stato d’animo del protagonista, si adeguano alla storia e accompagnano il lettore nelle ombre più oscure dell’animo umano.
La famiglia è il primo nucleo della società, la famiglia è il territorio in cui le relazioni primarie si intrecciano ed è campo d’indagine degli scrittori, da sempre. Come diceva Lev Tolstoj, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo e Zannoni lo mostra con coraggio, spingendosi oltre l’infelicità, raggiungendo l’oscurità della coscienza che fa compiere l’atto insensato, per sottolineare quanto sia labile il confine tra bene e male nella precarietà della società contemporanea.
C’è una madre, un padre, un figlio, una figlia, un nonno. Ci sono omicidi e suicidi. C’è ciò che non dovrebbe accadere che accade. Improvvisamente? Ci sono dettagli che avrebbero potuto destare un sospetto? L’uomo di oggi vive così velocemente da non avere il tempo di “vedere” l’altro che è parte della sua famiglia?
Oltre a quella sensazione di brivido, terrore, raccapriccio, Stato di famiglia provoca un’inquietudine nell’animo ma anche una speranza che ha il suono di un campanello d’allarme. Si può scegliere di fermarsi un attimo prima?
Intervista
Partiamo dalla scrittura: hai fatto una scelta stilistica opposta al noir (il colpevole si scopre alla fine), perché?
Ho sempre cercato di rompere o stravolgere le regole del genere, per questo sono partito da quella che, per tutti, sarebbe la fine della storia – però voglio sottolineare che il colpevole si scopre alla fine solo nei gialli; nei noir il colpevole non esiste e, se esiste, è il protagonista.
Mi interessava concentrare l’attenzione del lettore su quello che accade poche ore prima dell’azione criminale, sulla quotidianità familiare; se lo sviluppo dei racconti fosse stato tradizionale, il lettore sarebbe stato preso dall’incalzare dell’azione, aspettando con impazienza il finale; non sarebbe stato attento alle dinamiche familiari, ai segnali chiari di disfacimento lanciati dai protagonisti di queste tragedie. In questa maniera il lettore si immedesima molto di più in quello che racconto, ci si ritrova, ci ragiona e si spaventa.
E la parola famiglia cambia sapore.
Le motivazioni del Premio Giallo Garda dicono che “l’autore entra nella scrittura come fosse in sala operatoria”. Ti ritrovi in questa veste di scrittore-chirurgo?
Mi piace, specie quando dice che rigiro il pensiero del lettore fino a farlo sanguinare con la realtà dei fatti. Mi ci ritrovo molto. È un obiettivo serio, quello di colpire il lettore, di lasciargli dentro una traccia del mio passaggio. Il lettore è sacro, non va preso in giro, ma va colpito forte.
Parliamo dei tuoi personaggi, concedimi l’affermazione che sta a metà tra il paradosso e l’ossimoro: sono così veri da pensare (sperare) siano finti. Come ci sei riuscito?
Mi sono immedesimato totalmente, come faccio sempre, come fanno gli scrittori che vogliono fare qualcosa di buono e credibile. Non è stato bello. Ho sofferto parecchio; non è semplice cercare di ragionare come una persona che decide di sterminare la famiglia o uccidere un figlio mettendolo in una lavatrice. Ma ho dovuto farlo; ho cercato di dare un senso a comportamenti che mi hanno sempre sconvolto, raccontando le cose come sono accadute senza giudicare.
Quanto influisce l’occhio dello sceneggiatore nella mano dello scrittore?
Lo sceneggiatore è arrivato da poco più di due anni, ma ho sempre avuto questa maniera di scrivere, che dicono cinematografica -ma ti assicuro che con le sceneggiature non c’entra nulla davvero-.
Ho sempre cercato, fin dai primi romanzi autoprodotti, di far vedere esattamente quello che vedo/immagino mentre racconto. Una scrittura visiva, se puoi passarmi il termine, un po’ tipo leggere un film. E in effetti Stato di famiglia è nato anni fa sull’onda dell’emozione dopo aver visto un film di Gaspar Noè, Irreversible : la costruzione a ritroso della storia l’ho trovata geniale e mi ci sono ispirato pari pari nel costruire la struttura dei racconti.
Stato di famiglia è considerato un giallo ma l’impressione è quella che sia solo un pretesto per dire qualcosa d’altro: è così?
No, Stato di famiglia non è un giallo; credo sia la cosa più lontana dal giallo che si possa leggere – scusami Chiara, è la seconda volta che ti riprendo e ho timore di diventarti antipatico. [il bisturi, lui, lo usa sempre!]
Però sì, hai ragione, è un pretesto per dire che quegli assassini non sono mostri né serial killer da serie televisiva, ma persone come noi che non hanno avuto la forza di resistere agli istinti sbagliati. Che tutti possiamo fare il salto nel buio.
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L’esordio Alessandro Zannoni è con lo pseudonimo di Michelangelo Merisi; prima inaugurare la nuova collana SideKar dell’editore Arkadia con Stato di famiglia, Zannoni pubblica con Perdisa tre romanzi: Biondo 901 (2008), Imperfetto (2009) e Le cose di cui sono capace (2011); con A&B editore Nel dolore (2016).