Rosso di sera bel tempo si spera | Racconto di Diego Tonini

Rosso di sera buon tempo si spera, racconto di Diego Tonini

Interpretazioni moderne di detti popolari, questa è l’avventura narrativa proposta da Diego Tonini nei suoi racconti. Dopo Chi va con lo zoppo…, Il lupo perde il pelo ma non il vizio e Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace, ora è la volta di Rosso di sera bel tempo si spera, ma quale tonalità di rosso ha ispirato l’autore?

La bravura di uno scrittore è anche quella di sperimentare nuovi stili narrativi e variare i contenuti oggetto della propria scritura.

Buona lettura.

Rosso di sera bel tempo si spera

Ti ho sempre amato. Fin dal nostro primo incontro quando ognuno di noi aspettava un’altra persona, alla stessa ora, nello stesso posto.

«Posso sedermi qui?» mi hai chiesto, indicando il lato della panchina che avevo già lasciato libero per te. Non riuscivo neppure a risponderti, conquistato dai tuoi ricci rossi che andavano da tutte le parti, feci solo un mezzo sorriso e un cenno con la mano.

Vent’anni, mio Dio, dove va a finire il tempo quando passa così in fretta?

Come diceva quel vecchio film? Sempre insieme, eternamente divisi… ma non per colpa mia.

Ero innamorato di te, lo sono stato dall’inizio e per tutto questo tempo; l’avevi capito subito ma mi hai tenuto lontano, a quella distanza in cui si è più che amici ma meno che amanti, in quella terra di nessuno che fingevo di abitare con gioia e dove soffrivo, nascosto, solo per poter stare vicino a te.

Perché? Non sai quante volte me lo sono chiesto, avevamo il mondo in comune, ci piacevano gli stessi film, gli stessi libri; pensavamo le stesse cose; parlavamo per ore senza stancarci mai, completandoci le frasi a vicenda; solo gli sguardi erano diversi, adorante il mio, spostato altrove il tuo. Agognavo la tua presenza e ogni concessione che mi facevi era come pioggia in mezzo al deserto.

Ricordo le notti trascorse assieme a parlare della vita, abbracciati su una panchina in riva al fiume o passeggiando vicino a casa tua; ricordo quando mi raccontavi dei tuoi amori falliti e io ti accarezzavo mentre un pezzo del mio cuore si seccava e diventava nero.

Non conto più le volte in cui hai calpestato il mio amore fingendo di non capire, mentre io mi ostinavo a credere che fossi anche tu innamorato di me ma per qualche motivo non osassi confessarmelo. Mi illudevo certo, ma non lo accettavo.

E poi ci siamo allontanati. Via dal paese, nuova vita, carriera, amicizie e famiglie che nascevano e si sfaldavano, il tuo nome in rubrica, Skype e Whatsapp, e mai il coraggio di risentirti. Finché non sei ricomparso, vent’anni di silenzio accantonati non ricordo più se per raccontarmi dell’ennesima storia andata in pezzi o perché era uno di quei momenti in cui si venderebbe l’anima per far tornare le cose come quando si avevano diciott’anni.

Ti ho ascoltato in silenzio e mi sembrava che ti fossi fermato a vivere nel mondo meraviglioso che avevi costruito coi ricordi, mentre io invece mi ero trasformato in quello che una volta temevamo più di ogni cosa: ero diventato grande. Mi sono sentito migliore di te, per una volta, perché ero stato capace di superare quell’adolescenza di sogno in cui tu invece eri rimasto invischiato.

Ero io quello forte, adesso, potevo starti vicino senza scappare, l’antico amore di un ragazzino non ricambiato era sepolto per sempre.

E te lo avrei dimostrato.

Le telefonate si fecero più frequenti, diventarono un appuntamento serale. Giocavamo, ti facevo avances, battute e ammiccamenti che a volte raccoglievi e a volte no.

È tutto uno scherzo, mi raccontavo, non c’è niente di reale, ma mentivo di nuovo a me stesso, come il ragazzino timido di tanti anni prima. Stavolta però era diverso: l’idea di starti vicino mi eccitava, ma non soffrivo più per i tuoi rifiuti, pensavo a te e stringevo le gambe, mi accarezzavo di nascosto mentre ti immaginavo camminare nudo per casa mia, distenderti sul mio letto, lasciarti toccare da me e godere delle mi mani che ti sfioravano; ma non c’era più la sofferenza di una volta, anche se, e non l’avrei ammesso mai, ti volevo disperatamente.

«Non te l’ho mai chiesto, ma sei rosso anche lì?»

La tua risata dalle casse del computer. «Perché, non lo sai?»

La mia mano scivolò giù, le dita strinsero un lembo di prepuzio attraverso i jeans. «Finché non vedo non posso esserne sicuro.»

«Sei come San Tommaso.»

«Beh, proprio santo non direi…»

Altre risate, due bottoni slacciati. «Ma uomini nudi ne avrai visti…»

«Rossi mai.»

«Dovresti rimediare, sono i migliori.»

Infilai la mano nei boxer, me lo strinsi e iniziai a muoverla con lentezza.

«Perché non mi mandi una foto?»

Scalciai via i jeans e mi tolsi le mutande, accarezzai i testicoli e salii verso il glande.

Anche senza vederti sapevo che stavi sorridendo. Mi chiesi se fossi eccitato anche tu, immaginando che la mano attorno al mio membro fosse la tua.

«Allora?» insistetti.

«Allora cosa?»

«La foto.»

«Magari un’altra volta, devo essere ispirato.»

Adesso toccava a me ridere.

«Devo passare dalle tue parti la prossima settimana, se vuoi ci vediamo.» Sono io a chiamarti questa volta.

«Certo che voglio! Quanto ti fermi?»

«Una notte.»

«Puoi dormire da me, se ti va.»

«È una proposta?»

«Sei sempre il solito.»

Arrivato in città mi sento come avessi la febbre. Devo lavorare ma penso solo alla sera, a quando ti avrei rivisto di persona dopo tanto tempo. Sento riaffiorare il ragazzino timido divorato dall’ansia e dal desiderio che scribacchiava il tuo nome dappertutto.

Dovevamo vederci dopo cena ma alle otto e mezza sono sotto casa tua, seduto a bere birra sui tavolini del bar di fronte, in una posizione da cui posso vederti arrivare senza essere notato; quando ti vedo infilare le chiavi nella toppa e aprire il portone già mi gira la testa.

Respiro profondamente, ordino un caffè, aspetto cinque minuti e mi alzo.

Arrivo al tuo citofono, vedo un po’ sfocato e mi trema il dito mentre premo il pulsante.

«Chi è?»

«Io.»

«Sali, terzo piano.»

Prendo le scale, sperando di schiarirmi le idee, ma ottengo solo di arrivare ansimando mentre tu mi fissi dalla porta, con la spalla appoggiata allo stipite.

«Potevi usare l’ascensore.» Scuoti la testa divertito.

«Ciao» rispondo. Perché la mia voce non è mai ferma come vorrei quando mi rivolgo a te?

Scendi due scalini e mi abbracci.

«Ben arrivato» mi sussurri all’orecchio e io sento come un solletico scendere lungo il collo.

«Grazie» rispondo, ricambiando l’abbraccio senza sapere dove appoggiare le mani.

Mi passi il braccio attorno alle spalle e quasi mi spingi dentro casa, mentre io tentenno, un po’ per l’alcol e un po’ per il terrore di entrare in uno spazio che è parte di una tua vita in cui io non sono compreso.

Mi guardo intorno: sei lo stesso maniaco dell’ordine di sempre e io non ho il coraggio di appoggiare la borsa da nessuna parte per non rovinare il magico equilibrio che hai creato in casa tua.

«Hai mangiato?» prendi la valigia dalla mia mano e la fai sparire in un’altra stanza.

«Sì» mento, senza sapere perché.

Sorridi. «OK, allora passiamo subito all’alcol.»

Sparisci in cucina dicendo di accomodarmi. Mi lascio andare sul divano, il respiro grosso, gli occhi chiusi. La stanza tintinna, riapro gli occhi; no, sono due bicchieri su un vassoio e dietro di loro una bottiglia di porto e dietro ancora il tuo sorriso. Appoggi tutto sul tavolino, versi e apri la finestra. È fresco fuori, ma non freddo. Accendi due sigarette, ti siedi accanto a me e me ne passi una. Boccata, sorso, i miei occhi lontano dai tuoi, verso il soffitto, silenzio. Armeggi col telefono, musica che si spande dalle casse nascoste.

And I’d give up forever to touch you

‘Cause I know that you feel me somehow…

La mia risata è più uno sbuffo dal naso.

«Beh, che c’è?» chiedi.

«Ti è sempre piaciuta questa musica del cazzo.»

Aggrotti le sopracciglia e mi fissi, la sigaretta tra le dita. «Ma se piaceva anche a te!»

«Mi piaceva perché piaceva a te.»

«Ah.»

Mi guardi. Ti guardo.

«Non me l’hai mai detto.»

«Ti ho detto tante altre cose.»

Hai gli occhi lucidi, le mani calde. Ti avvicini, il tuo respiro sa di porto e sigarette. Non ho mai visto occhi più grandi dei tuoi.

«E cosa mi avresti detto?» giocherelli col bicchiere, io spengo la sigaretta, ne prendo un’altra e vado alla finestra. Soffio il fumo fuori, ti volto le spalle verso il mondo.

«Lo sai» rispondo.

Sento che ti avvicini.

«Era tanto tempo fa, dimmelo di nuovo.»

Mi guardo le mani, tremano. Stringo il pugno e mi volto. «Smettila» dico. Non pensavo fossi così vicino, il tuo naso mi sfiora.

«Smettila» ripeto, ma non finisco la frase perché le tue labbra premono sulle mie con foga e imbarazzo, le tue braccia mi circondano, il tuo corpo preme su di me. Mi irrigidisco, spalanco gli occhi, non so che fare, ma tu mi afferri la nuca e infili la lingua tra i miei denti, mi tiri sul divano e ti metti sopra di me, senza mai staccare le labbra dalle mie.
Fisso le tue palpebre chiuse e non so come muovermi, sto fermo come un manichino, mille pensieri mi attraversano la mente veloci come animali in fuga.

Ti fermi. «Beh, che c’è?» chiedi, «non vuoi?»

«Sì, cioè no, non so…»

Sorridi con un lato solo della bocca. «Stai zitto» dici, e la tua mano riprende a scorrere sulla mia pelle.

Mi lascio andare, cerco il tuo corpo con le mani, mi inarco, ti abbraccio, stringo forte. Finiamo in camera, ti spingo sul letto ed entro in te con la foga di chi ha aspettato vent’anni, premo con tutto il mio peso su di te, mordo, graffio, ti sento gemere e alla fine vengo urlando e ricado su di te, il respiro che non si ferma, troppo spossato anche solo per riaprire gli occhi.

«Dio» ti sento mormorare, «perché abbiamo aspettato così tanto?»

Senza risponderti mi giro sulla schiena e tu mi appoggi la testa sul petto; infilo la mano tra i tuoi ricci e sospiro. «Finalmente ho scoperto di che colore sei là sotto» sussurro.

Accenni una risata, ci addormentiamo.

Fuori, i rumori della città che si risveglia; accanto a me, il tuo respiro pesante. Apro gli occhi: un pallido chiarore filtra dalla finestra, quanto basta per mostrare i contorni del tuo corpo nudo. Ti sfioro la spalla con le labbra e tiro su le coperte, recupero i vestiti sparsi sul pavimento e mi siedo in cucina, la sigaretta in una mano e la penna nell’altra. Sospiro e comincio a scrivere.

Ieri volevi sapere cosa ti avevo detto tanto tempo fa e te lo ripeto, anche se già lo sai: ti amo. Ti amavo il primo giorno che ti ho visto, ti ho amato per anni, quando non mi volevi, quando mi parlavi delle tue storie, quando mi usavi per farti consolare e nutrire il tuo narcisismo. Ti ho amato anche quando eri lontano, ti ho amato in ogni momento di questi vent’anni anche se fingevo che non fosse così.

Stanotte fare l’amore con te è stato come un viaggio in paradiso.

Il momento più bello è questo, mentre scrivo queste righe. Ieri, mentre venivo dentro di te, mi sono svuotato di ogni sentimento. Tu gridavi e godevi e giuravi di amarmi, io mi accorgevo di essere un altro. Oggi non provo nulla, se non la soddisfazione che il sesso con te è stato il migliore esercizio fisico degli ultimi anni.

Ho impiegato vent’anni per realizzare che sei solo un ricordo adolescenziale.

Addio.

P.S. Ti ho finito le sigarette.

Lascio cadere tre monete sul tavolo, prendo la borsa e scendo in strada dove aspetta il taxi.

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Puoi sapere qualcosa in più di Diego Tonini visitando il suo blog.

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