Esigenza di scrittura. Una storia vera da raccontare.
Sono questi i due elementi che danno vita a questa short story di Gianluca Ferrittu.
Lui si trova a Yangon, nota un tempo come Rangoon, la più grande città del Myanmar, una volta Birmania; si imbatte in un report di una agenzia di stampa (vicina ai rohingya) dove sono raccolte le testimonianze di un assedio avvenuto in Rakhine nel 2017. Questo racconto è ispirato a ciò che non ha potuto più dimenticare.
La sua scrittura è lucida e pulita come la mente del protagonista; la storia è breve, volutamente sintetica, frutto di un’attenta finitura per lasciare spazio solo all’esperienza. Toglie il fiato.
Buona lettura.
Le regole del dharma
Ad Alethankyaw l’aria era terribilmente umida. L’uomo era nascosto e accovacciato all’ombra di un pannello solare in disuso sulla torre di trasmissione. Dall’alto vedeva il fumo delle case, le strade deserte nella polvere e il piccolo porto a sud di Maungdawn dove i pescherecci attraccavano. Più in là, le distese di campi alti e verdi che proseguivano verso le foreste di teak, sotto le montagne.
Si era arrampicato sulla cima della torre e ora prendeva fiato, mentre irrigidiva il polso e appiattiva gli occhi per il sole accecante di mezzogiorno.
Guardava lontano e non sentiva niente. Nei campi fitti qualcosa si muoveva facendosi largo tra le fronde e l’uomo se n’era accorto.
Non era sorpreso, eccitato o impaurito per la scoperta. Non era niente di tutto quello e il sudore gli colava lento dalle tempie. Con un colpo di manica si asciugò il viso, si rimise in posizione e cercò di capire da dove e quanto il leggero vento stesse soffiando verso la baia. Pensò di averlo capito e cercò di concentrarsi.
Nei campi continuava a scrutare le figure muoversi rapide e correre a perdifiato, senza voltarsi. Immaginava fossero serpenti che strisciavano verso la china delle montagne, o gechi che si muovevano verso l’ombra, oppure corvi abbassati negli alberi al cimitero dei soldati inglesi di Yangon.
Tutto ciò che gli avevano insegnato i sangha era sempre stato molto lineare ed erano le regole del dharma. Evitare parole che non vanno pronunciate alla luce del vinaya. Disciplina. Agire di conseguenza sotto la stessa luce e controllare i sensi. Vista, udito, olfatto, gusto, tatto. Una questione di mente calma, e l’uomo ora era in posizione sulla torre con il polso contratto, la luce del giorno scintillante e il vento che smetteva di soffiare. Si sentiva pronto.
Ora pensava a quando gli avevano rasato i capelli durante il suo shinbyu, all’odore acre dell’incenso e al calore bollente dell’asfalto, quando da bambino tornava scalzo alla pagoda scendendo Baho lan, mentre gli stormi neri si appiattivano alti verso i tetti delle case.
I sangha erano uomini giusti e lui aveva salito quella torre in solitaria perché così andava fatto, quando la luce non era ancora alta, e il cielo era di un rosa vasto e vuoto. Arrampicandosi si era detto che quello probabilmente era il colore della morte quando brucia e di ogni altro assedio del mondo, oltre le montagne. Poi aveva smesso di pensare a tutto quello e aveva cercato solo di fare il suo lavoro.
Con un occhio aperto e uno chiuso non smetteva di seguire nel mirino le figure muoversi verso la foresta. Inspirò. Espirò. Con un movimento secco e rapido sparò in successione quattro colpi e da lontano, nelle fronde verdi e gialle della vallata, la donna, i due bambini e l’uomo caddero uno dopo l’altro nella terra fangosa e molle. Nei campi dopo niente si muoveva più.
Gianluca Ferrittu, classe 1994, vive tra Pavia, Lisbona e Yangon (Birmania). Suoi lavori sono apparsi su Pastrengo – Rivista e Agenzia Letteraria, L’inquieto, Tuffi, Risme. Il suo racconto Un Lavoro Pulito ha vinto a Luglio il Premio Treccani Web come eccellenza del giorno in lingua italiana.
Immagine da wainomitravelblog