Luigi Latini è il Presidente del Comitato Scientifico del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, giunto alla sua XXVIII edizione, uno dei principali e originali progetti di ricerca e divulgazione condotti dalla Fondazione Benetton Studi Ricerche nell’ambito dell’attività scientifica rivolta al paesaggio, allo studio e alla cura dei luoghi, che da sempre, e forse più di altri, caratterizza il nome di questa fondazione.
Lui preferisce definirsi il capofila di un gruppo di lavoro, «perché qualsiasi forma di condivisione è preziosa», e memoria storica di questo progetto, che segue da oltre vent’anni; quello che noi vediamo, infatti, è solo il risultato di un processo, l’esito di discussioni, ipotesi e scelte di un gruppo che promuove un principio di “cura dei luoghi” e una cultura di “governo del paesaggio”. Il premio in onore di Carlo Scarpa, architetto e inventore di giardini, consiste in una campagna di studio rivolta a un luogo particolarmente denso di valori di natura, in cui il difficile binomio tra conservazione e innovazione trova un suo proprio equilibrio.
L’incontro con Luigi Latini si propone di partire dal dettaglio per giungere al concetto da cui la scelta del particolare è causata: come il Jardìn de Cactus è il simbolo di un’idea visionaria, che ha preso forma diventando un modello, così, la consegna del sigillo disegnato da Carlo Scarpa a Antonio Martìn Santos premia la trasmissione collettiva e l’opera di César Manrique. Il programma della FBSR si inaugura con l’incontro pubblico e l’apertura della mostra venerdì 18 maggio alle ore 18 e si concluderà con la cerimonia pubblica al Teatro Comunale di Treviso sabato 20 maggio alle ore 17.00.
Chi è Antonio Martìn Santos?
È figlio di tre generazioni di giardinieri e di amateur conoscitori di cactus e si occupa, lui come suo padre, della cura del Jardìn de Cactus; non è uno scienziato né un politico, non è una figura istituzionale e nemmeno un accademico: è uno che ha imparato il mestiere che gli è stato affidato per la continuità di questo giardino. In un quadro come quello isolano, l’ipotesi per il conferimento del premio era di rivolgersi alla Fondazione César Manrique, al Cabildo di Lanzarote -che è il governatore dell’isola-, oppure al governo delle Canarie, mentre, dal nostro punto di vista, ci è sembrato più consono scegliere una figura simbolica, senza fare demagogia, e designare il giardiniere che tiene in ordine il giardino e che tramanda la conoscenza che ha acquisito.
Egli diventa anche simbolo di una “trasmissione collettiva”, cosa significa?
Il lavoro collettivo è stato una importante scoperta per noi. L’indizio di andare a studiare una cosa apparentemente nota, infatti chi va a Lanzarote si imbatte subito in questa figura di César Manrique per l’impronta che ha dato all’isola, si è rivelato come una ragione sufficiente per ricercare i motivi per cui certe persone hanno lavorato, hanno dato un aiuto e ci aiutano soprattutto oggi a capire cosa possiamo fare e in che direzione andiamo. L’apparente visione un po’ neutralizzata e più turistica di quest’uomo, cioè come di uno che ha fatto dei luoghi piacevoli, un bene a portata di tutti, si è trasformata in qualcosa d’altro. Prima di tutto abbiamo intuito il fascino e la condanna di César Manrique, che è un artista, addirittura in gioventù era un po’ snobbato perché era considerato come un arredatore, dagli intellettuali più fini, perché si è occupato anche di interni ma, proprio da questo particolare, emerge che si occupava di tutto, perché aveva un’idea di “arte totale”, quindi la sua sensibilità ha dato un’impronta. Era un pittore ma si occupava anche di architettura, si interessava al valore degli ambienti e degli stili di vita, anche attraverso le sue feste.
Il lato che ci ha interessato di più e che si scopre studiando, addentrandosi, è che in realtà lui ha fatto un lavoro di tipo collettivo; Manrique, come altre figure nella storia del secolo scorso, ha avuto questa attitudine, una sensibilità estetica, e lui come altri che nascono in un luogo piccolo ma poi vedono il mondo, ritornano nei luoghi d’origine portando del buono, invece di portare degli schemi. Ecco, lui ha avuto l’intuizione di trasformare un paesaggio, arido e povero, in una opportunità per un turismo che oggi definiamo “di qualità”, dove lui ha visto una chance da dare agli abitanti, non una condanna di portare persone culturalmente selezionate. Però la marcia in più di questo progetto è stata che lui lo fa diventare un lavoro collettivo: questa è l’esperienza che ci interessa perché di grande attualità, basti pensare a quanto si parla di buone pratiche, quindi alla domanda “come si fa a rendere bello il nostro paesaggio?” la risposta è che non bastano le norme, né serve la bacchetta magica, ci vuole una sensibilità diffusa e lui ci arriva con questo doppio registro: l’amore per la sua terra e l’intuizione artistica, e poi la vicinanza di un politico, il Governatore dell’isola, uomo lungimirante che gli dà credito.
Come avviene il passaggio da progetto a lavoro collettivo?
Potrei dire di immaginare quest’isola come se fosse una cattedrale, cioè lui individua nel suo territorio tutte le persone e tutte le capacità manuali, da chi lavorava il legno, da chi conosceva le piante, non veri e propri giardinieri, da chi sapeva spaccare le pietre e costruire i cosiddetti “muri a secco”, quelli che non sappiamo più costruire perché non abbiamo più le maestranze. Manrique coglie il momento storico in cui ci sono ancora le capacità manuali, le valorizza e trasforma questa esperienza basica in una operazione culturale, perché lui capeggia questo grande gruppo di lavoro come fosse il capomastro, negli anni ’70 arriva a dirigere la manodopera di 300 persone, senza farlo diventare un suo business personale ma coinvolgendo gli abitanti in un progetto promosso dal governo locale. Da un lato c’è il pensiero alto dell’artista e dall’altro c’è la manualità degli isolani, che è imprescindibile, ed è qui che emerge quello che è stato definito il lato pedagogico di Manrique, rappresentando così l’anello di congiunzione tra un progetto e la sua continuità, la sua fattibilità. Poi, e forse più di tutto, Manrique sa fare un passo indietro, scelta che evidenzia la cifra dell’artista e di tutti coloro che conoscono il proprio valore.
Quindi Manrique ricerca proprio la risorsa umana nel significato più puro del termine?
Esatto, in ciò che definiamo identità del paesaggio locale, non intesa come fosse lo “stato originario” bensì lui lo considera dal punto di vista delle qualità umane e del sapere umano; è questa la sua grande strategia, costituisce questo gruppo di lavoro che non fa dei monumenti o degli edifici simbolici, ma costruisce una rete di luoghi che si chiamano Centros de Arte, Cultura y Turismo, sotto l’egida dell’amministrazione isolana, sono questi degli esempi di buone pratiche, di come si può trasformare il paesaggio dell’isola in un luogo di qualità turistica che però sia anche rispettoso dell’ambiente e del paesaggio locale, cosa che potrebbe sembrare scontata ma non lo è. Al giorno d’oggi, noi tendiamo a considerare i paesaggi con uno spirito protettivo, anche un po’ conservativo, lui invece ha rinnovato rispettosamente il paesaggio; ovviamente la sua vena artistica gli ha permesso di esprimere cose nuove e lui l’ha fatto, come tutti i grandi maestri del secolo scorso, facendo cose che oggi una qualsiasi Commissione del paesaggio non autorizzerebbe mai, eppure lui ha creato degli esempi di buone pratiche e sono quelli che a noi sono interessati.
Può fare degli esempi?
Abbiamo visto i Jameos del Agua, delle grotte vulcaniche: lui insegna agli abitanti a riconoscerne il valore per farli diventare dei luoghi di accoglienza turistica, quello più spettacolare diventa una discoteca, oppure ci sono tutti quei luoghi che accompagnano il percorso di visita dei vulcani e conducono a un ristorante in cima a una montagna; ancora, costruisce dei miradores che sono tipo dei veri e propri cannocchiali, che stanno in luoghi particolarmente parlanti del paesaggio dell’isola, dove si entra nelle viscere e poi ci si ritrova affacciati sul panorama dell’isola. Manrique insegna, sia al turista sia all’abitante dell’isola, a guardare con occhi nuovi questo paesaggio.
Quindi, in un’isola arida ha trovato una popolazione fertile?
Sì, fertile ma direi forse più ricettiva. La popolazione ci dà un insegnamento, a noi che siamo dei grandi dissipatori, perché sono persone che hanno dovuto convivere con paesaggi vulcanici, in un’isola che è stata più volte violentata da eruzioni, anche molto recenti, priva di acqua propria, un ambiente che comincia a rinascere, in chiave moderna, negli anni ‘60 quando vengono portati gli impianti di desaniliazazione dell’acqua e nasce così il turismo. L’astuzia di César Manrique è stata quella di comprendere l’attitudine isolana di vivere in un paesaggio costantemente provvisorio, interpretandola negli aspetti legati ai paesaggi agrari e all’architettura tradizionale, che sono molto belli e sono degli esercizi di resistenza: lei non vedrà mai né prati né distese di vegetazione ma vedrà dei territori direi funerei, rivestiti di lapillo vulcanico dove però i contadini coltivano viti e ortaggi, perché usano il lapillo vulcanico come una sorta di elemento compensatorio: il lapillo è idrofilo e quindi assorbe di notte l’umidità dell’aria, non piove ma capta, e quindi forma una sorta di strato regolatore idrico che permette ai terreni fertili, che stanno sotto lo strato vulcanico, di continuare a dar vita alle piante senza essere sottoposti all’evaporazione.
Questa tecnica era già utilizzata dagli isolani?
Sì, già prima delle eruzioni spettacolari del 1700, qualcosa del genere c’è anche a Pantelleria. Quindi lui capisce che questo paesaggio non è solo utilizzabile dall’agricoltura o di interesse turistico tout cure ma ne intuisce la potenzialità artistica ed espressiva. Dobbiamo ricordare che il sole spietato e la mancanza di acqua segnano l’isola che è anche costantemente violentata da venti fortissimi, da qui la necessità di costruire dei muretti che riempiono il paesaggio, facendolo diventare molto interessante. Manrique ragiona su ciò che l’uomo mette in atto per reagire ai problemi quotidiani e lo ripropone in chiave artistica, quindi prende alcuni fattori che sono legati al paesaggio storico e li utilizza per il suo obiettivo di trasmettere un messaggio ecologico e si batte contro la distruzione dell’isola da parte del turismo di massa; capisce che questo equilibrio fragile può essere da un lato un’opportunità per nuovi paesaggi dall’altro può essere, nell’arco di poco, travolto da un turismo che distrugge tutta questa storia.
Manrique muore nel 1992, sono passati più di 20 anni. I lanzaroteñi sono riusciti a preservare questo lavoro?
Già prima di morire, non avendo eredi, Manrique creò una fondazione, la Fondazione Manrique, a cui lasciare le sue case e le sue opere perché, in realtà, tutto questo meccanismo che lui aveva architettato non era di sua proprietà ma dell’amministrazione; ma, poco dopo la sua morte, viene a mancare anche il governatore dell’isola, che era il suo mentore e quello che garantiva la credibilità e la fattibilità del progetto, quindi il processo ha preso un orientamento inverso. Però, una qualche forma di continuità c’è ancora perché le sue due residenze sono visitatissime, come il museo, e fanno un lavoro di presidio sull’isola, sono un po’ una mini Italia Nostra, se volessimo fare un parallelo, cioè la Fondazione Manrique è un luogo dove ci si batte contro il depauperamento dell’ambiente, l’imminente costruzione di una strada, si occupa di fare cultura e educazione, quindi da questo punto di vista c’è una continuità.
Col passare dei decenni, l’ultima tendenza è quella di allentare le briglie e concedere di più allo sviluppo turistico, e sebbene Lanzarote, rispetto alle altre Canarie, sia un’isola virtuosa, non è esente dal turismo di massa e ci sono delle parti dell’isola già molto edificate e nel peggiore dei modi. Rimane forte il senso della misura lasciato da César Manrique, che aveva dato un’impronta al senso della qualità, non solo delle abitazioni ma anche dei complessi turistici, basti pensare che lui aveva condizionato alcune norme per mantenere una certa armonia, che si respira ancora nell’isola. Ad esempio, lui aveva stabilito che il colore di tutti gli infissi nell’arco di 50 mt rispetto alla riva dovevano essere blu e invece quelli dell’interno verdi, insomma regole elementari, invisibili, che però erano un modo per diffondere la sensibilità verso quello che si aveva.
Non c’è stato nessuno, all’interno della Fondazione, ad avere preso il testimone di questa sua visione?
No, in questo momento i Centros de Arte, Cultura y Turismo hanno solo una funzione di protezione e gestiscono le due case-museo. Sono un memoriale a Manrique, una è una casa in campagna e l’altra è in una di quelle bolle che si formavano nelle colate di lava vulcanica e poi diventavano delle grotte, dove lui decise di andare ad abitarci e lì mette in scena questa sua sensibilità, in anni molto pop, in cui lui invitava una rete di altri artisti e intellettuali, però era tutto proiettato in un’ottica precisa, in una sua etica, cioè tutto questo movimento doveva provocare anche un cambiamento nello stile di vita, nel mondo di costruirla e di abitarla. Per questo è interessante. Lui, ad esempio, è stato legato al binomio arte in naturalezza, perché come artista, a parte la sua opera pittorica, era spinto a incidere questi paesaggi che era natura allo stato puro, lave vulcaniche, mare impetuoso, quindi la sua sensibilità è protesa proprio verso l’ambiente; la sua arte ha suscitato una riflessione in tema di ecologia, visto che lui aveva già allora cominciato a parlare di equilibri e di protezione, di natura insidiata.
Come siete arrivati alla scelta finale che premia il Jardìn de Cactus?
Dopo varie riflessioni e discussioni sul progetto, per giungere all’assegnazione del premio, ci siamo concentrati su un luogo che dovesse rispettare una serie di valori e alla fine è stata scelta la cosa inizialmente meno prevedibile, che è questo Giardino dei cactus, l’ultimo dei suoi lavori. A prima vista sembra più vicino a una macchina turistica, per attirare lo stupore di una popolazione vacanziera, perché i cactus sono un elemento talmente stravagante e stupefacente che è un po’ come andare in oriente e trovare dei giardini zen riprodotti. Invece poi siamo entrati molto dentro l’argomento e c’ha convinto, un po’ perché per noi rappresenta un principio insediativo che Manrique aveva saputo mettere in atto, cioè quello di colonizzare i luoghi abbandonati. Uno dei meriti di Manrique è stato quello di anticipare la generazione dei parchi urbani dagli anni ‘80, la cui riflessione nasceva in funzione della dismissione e della ricerca di luoghi maledetti e abbandonati, come le cave e le discariche.
Manrique ha avvertito il bisogno di costruire un nuovo luogo in un paesaggio vecchio, o usato, e lo ha trovato in questa cava di lapillo che serviva per l’agricoltura, che poi era diventata una discarica e la fa diventare un giardino. Il meccanismo che progetta è lo stesso di quando l’agricoltura scende di quota per proteggersi dal vento e costruire una struttura che sia protettiva perché il vento sferza e porta via tutto, così con il linguaggio dell’architettura rurale dell’isola, il Giardino dei Cactus è una specie di teatro, di terrazzamenti e di rocce che ripete in sintesi i caratteri specifici dell’architettura e del paesaggio rurale. In quel luogo si ritrova una visione collettiva, che racchiude tutti questi saperi del costruire con la pietra, del costruire a secco, c’è tutta ricchezza di dettagli, dalla piccola maniglia alle grandi costruzioni, tutto ha una coerenza ed è stupefacente come la cifra stilistica che lui immette, poi diventa una cosa riconosciuta e accolta dall’intera comunità isolana.
Manrique trova un punto di equilibrio tra la coscienza collettiva e questa sua tensione artistica, anche un po’ visionaria. Tra l’altro, i cactus sono piante di provenienza americana, qualcosa di esotico, quindi non è neanche un inno al paesaggio autoctono, ma questo è il suo modo per esprimere l’arte. Dietro queste sue operazioni c’è tantissimo, ci sono tanti fili che si riallacciano, come ad esempio riprendere una tradizione dell’isola che già da un secolo coltivava il Fico d’India, infatti il giardino ne è circondato, pianta anch’essa d’oltreoceano che poi ha trovato nella fascia mediterranea il suo habitat, come anche in Sicilia, e a Lanzarote è stata coltivata intensamente, ora meno, perché sulle pale del Fico d’India si sviluppa un parassita che si chiama cocciniglia e che produce il colorante della porpora, e gli agricoltori isolani lo raccolgono per essere essiccato e commercializzato come colorante, dai tessuti all’agroalimentare. Allo stesso modo il Cactus è lì per l’empatia di Lanzarote con le piante succulente.
Questo modello è ripetibile o servono tutte queste capacità e coincidenze messe insieme?
Secondo me è ripetibile, se una amministrazione ha il coraggio di pilotarlo, ovviamente con dei linguaggi e una sensibilità artistica che non può essere quella di un uomo degli anni ‘70. Penso a delle realtà viste, qualche anno fa, in Abruzzo dopo il terremoto, a Santo Stefano di Sessanio dove si è proposto quello che viene chiamato “albergo diffuso”, progetto di ripristino ma senza un programma culturale e una strategia, riproducendo una struttura in modo un po’ nostalgico, si potrebbe dire, mentre Manrique ci metteva la sua ispirazione artistica e dava a tutto questo maggiore vita, la sua era una forma di interpretazione del paesaggio e quindi, per rispondere alla sua domanda direi “non so, se avessimo un po’ di coraggio, sì, sarebbe doveroso”. Bisognerebbe riuscire a trasformare queste esperienze, estraendole dall’orbita di conservazione, valorizzazione e impulso turistico, per farle diventare qualcosa di più attraverso la presenza di una sensibilità artistica che mostri il paesaggio con occhi diversi.
Come avete indicato nei comunicati stampa, ci sarebbe la necessità di una figura che “ne governi e diriga i processi”, perché secondo lei non riusciamo a governare i processi? Quanto incide la mentalità italiana nel far arenare i progetti?
Da un lato penso che abbiamo una condizione culturale ufficiale di pigrizia, o di scarsa vivacità, e dall’altro c’è, nella realtà politica, una scarsa volontà di rischiare, o una tendenza di “giocare facile”, mi passi la definizione. Negli eventi artistici e culturali si pensa troppo spesso al modo di attirare i turisti, oppure a riproporre tutto quello che è un paesaggio o la ristrutturazione di una villa storica, mentre manca un’attitudine culturale che possa essere interessante anche per altri, in una visione più ampia.
Bisognerebbe che qualcuno decidesse di rischiare e prendersi anche la responsabilità di essere committente, dando credito anche a persone che non sappiamo subito riconoscere, nel tentativo di stanare i talenti, i bravi progettisti che abbiamo, invece si preferisce “giocare facile”. Dall’altro c’è una condizione culturale un po’ tiepida che però è accompagnata da qualcosa che ancora con comprendiamo bene, che ha rivelato, nel caso di FBSR – Luoghi di valore, un progetto che ha trovato riscontro nella società civile, nell’associazionismo, e che dimostra come ci sia tutto un fermento culturale che dimostra di avere voglia di mettersi in gioco, ma che non ha ancora un indirizzo, che a volte ripiega su se stesso; molte volte queste associazioni hanno i loro amori e pensano solo a quello.
Cosa contraddistingue, quindi, l’opera di César Manrique?
Non si va mai a cercare l’opera in sé, non siamo dei filologi o degli storici, si cercano dei luoghi da studiare perché hanno un messaggio idealmente universale e comunque un messaggio attuale. Manrique fu un uomo e un artista lungimirante e questo lo collega profondamente a colui che ha ispirato il premio: se Carlo Scarpa non avesse avuto dei committenti lungimiranti, dalla famiglia Brion, per la quale lui ha lavorato, al Soprintendente di Verona, che ha scommesso e ha voluto rischiare scegliendolo per il museo Castelvecchio, conosceremo le opere di uno dei maggiori architetti italiani? Se rivedessimo adesso, nel groviglio di norme e di divieti, tutti i maestri del Novecento sarebbero andati a fare un altro mestiere e noi non avremmo dei capolavori.
Vincoli, norme e regolamentazioni che riteniamo obbligatorie, perché?
Servono, ma hanno determinato l’incapacità di guardare con libertà un progetto o di prenderci la responsabilità di inventare un modo non così autoprotettivo, ma più aperto e propositivo. Da questa riflessione muovono tante questioni, che emergono e ogni anno ci fanno affrontare temi che ci mettono idealmente con le spalle al muro. Fortunatamente la discussione che si sviluppa all’interno della Fondazione esce da questi canoni, godiamo di totale autonomia nella scelta dell’indirizzo da dare a un convegno e non abbiamo vincoli o dobbiamo mediare con la politica. Quindi, da un lato abbiamo un nome ingombrante che è il mecenate, e dall’altro abbiamo sempre avuto un messaggio da parte sua di massima fiducia nella discussione aperta.
La conclusione può essere che Cesar Manrique ci mostra una strada possibile?
Si, certo. Lo mostra un breve documentario che sarà a breve disponibile, dove si trovano le interviste a tutti questi signori che ora sono anziani e che erano la squadra di Manrique, uno è il giardiniere, uno è quello che andava con lui a raccattare le pietre vulcaniche, uno era un ebanista falegname, un altro era fotografo o fabbro, cioè tutti quelli che anche grazie all’educazione di Manrique sono riusciti a fare prodotti di altissimo livello di qualità, quando ancora non erano coscienti, ma grazie all’intervento dell’artista si è innescato questo meccanismo. Le loro testimonianze dimostrano che è una strada possibile.