Pontescuro è un viaggio nell’anima, percorre i meandri dell’essere umano, della natura e del mondo, si addentra nei dedali misteriosi del cuore e della mente, regalando al lettore una percezione dell’anima mundi di platonica memoria.
Pontescuro (2019, Miraggi Edizioni) «è l’opera matura di un autore che ha esplorato molte possibilità espressive della parola», così esordisce Alessandro Barbero nella candidatura del romanzo al Premio Strega 2019.
Lo stile narrativo di Luca Ragagnin mostra infatti una consapevolezza linguistica e di contenuto: la scrittura poetica e visionaria gli permette di scavare nell’animo con delicatezza e pudore, riuscendo a entrare in profondità, a mostrare anche il male che dimora nei personaggi, con l’occhio di chi prende la giusta distanza e cerca un senso nelle vicende umane. Con grande sensibilità l’autore ripropone il tema più vecchio del mondo, l’inesorabile lotta tra il bene e il male, entità metafisiche che duellano nel microcosmo umano e si contendono piccole scaramucce nell’implacabile ciclicità del divenire.
Pontescuro, luogo non-luogo
Perché Pontescuro è un luogo non-luogo? La scelta di avere un luogo è necessaria alla caratterizzazione del paesaggio, per coinvolgere il lettore, ma Pontescuro come non-luogo è funzionale alla comparsa delle voci narranti. L’impressione è che Ragagnin abbia avuto principalmente bisogno di una serie di elementi: un paese in cui far vivere la miseria di persone comuni, un castello in cui collocare l’avarizia del signor Casadio, un orizzonte di campi in cui far volare le ghiandaie, un fiume che permettesse all’acqua e alla nebbia di assumere una voce e, soprattutto, un ponte che collegasse due sponde.
Pontescuro è un romanzo corale, si potrebbe dire multietnico se non fosse che, a formare questa coralità, non sono diverse etnie bensì differenti specie di esseri: l’umano, l’animale e il vegetale, fino all’accenno di qualcosa di soprannaturale.
Tra i personaggi emergono con forza Dafne, la bella e ribelle figlia del Casadio che avrà per sempre ventiquattro anni, Ciaccio, un trovatello considerato lo scemo del villaggio ma il solo a comprendere che la vita non è un confine ma una linea infinita, Emilio detto il Zuntura, padre adottivo di Ciaccio, che tutto sapeva aggiustare tranne il suo cuore; sono figure caratterizzate da una spinta vitale verso l’alto. Per contrasto, Nella e Sergio agiscono spinti dalla rabbia e dell’invidia; nel mezzo ci sono molti personaggi che si muovono nella neutralità e nella mediocrità, come don Antonio e l’ispettore Romanelli, non-posizioni che consentono loro di spingersi in un senso o nell’altro a seconda dell’interesse del momento.
La voce della ghiandaia e della blatta mostrano la bellezza che l’uomo comune non sa scorgere. Il fiume, la nebbia e il ponte sono testimoni del male che intacca lo scorrere della vita a Pontescuro.
Il romanzo è stato una nuova occasione per dare luce alla collaborazione dell’autore con Enrico Remmert che ha curato le illustrazioni, amplificando quella sensazione di favola per adulti che provoca la scrittura e, infatti, di cosa parlano le favole se non del bene e del male, di eros e thanatos?
Un ponte tra cielo e terra
Il ponte di Ponte(o)scuro unisce sì le due rive del fiume ma, in chiave simbolica, divide due livelli di conoscenza o di dimenticanza, intesa come condizione primigenia, quella che la venuta al mondo fa «dimenticare di aver saputo il Tutto, avendone fatto parte fino al primo vagito. Senza quella condizione, non si nasce.»
I due piani sono rappresentati dalla terra e dal cielo.
La continuità di questo luogo è data dall’interruzione.
La maggior parte dei personaggi vive a contatto con la parte oscura della terra, trascorre una vita fine a se stessa, solo pochi vedono la sua bellezza e cercano di riscattarla, assecondando la propria indole e riconoscendo nella semplicità della natura una possibilità, ed è proprio il concetto di possibilità ad essere estraneo ai più.
Suggestivo, da questo punto di vista, è l’immolazione delle ghiandaie alla veglia funebre di Dafne: immagine di evocazione hitchcockiana, gli uccelli rappresentano in questo caso il sacrificio, coloro che possono volare così in alto da sfiorare il mondo degli dei; in quel gesto, istintivo e innaturale, leggiamo l’abbandono del sé per un valore superiore (quel Tutto di cui sopra) e l’omaggio alla bella Dafne; suggestione diversa da quelle che rimane nel film di Hitchcock in cui gli uccelli sono prevalentemente la metafora di un disagio profondo e di una minaccia. Pura coincidenza, ma degna di nota, è il fatto che Gli uccelli di Hitchcock sia tratto un romanzo di Daphne du Maurier. Nella causalità del caso, nell’attenzione che Ragagnin pone ai nomi e nel sotteso andamento karmico che si respira nel libro, è curioso ritrovare il nome Dafne.
Infine, c’è Ciaccio, considerato scemo mentre in realtà è saggio, non per la conoscenza in sé quanto per la purezza del cuore che gli permette di vedere le cose come stanno, senza la cattiveria o la miseria degli abitanti di Pontescuro. Ciacco rappresenta la possibilità di riscatto, il dono venuto dal fiume che i paesani non hanno saputo comprendere, perché hanno continuato a considerarlo diverso inferiore invece che diverso superiore, un peso invece che un’opportunità.
Ragagnin, in questa favola ambientata agli inizi del secolo scorso, invita a spingere lo sguardo oltre il confine, innalzandolo più in alto possibile, perché
la vera felicità vive molto vicina al vuoto, chiama un bagaglio leggero, un nastro rosso, per esempio.
Intervista
Cosa ha ispirato Pontescuro?
Le grandi linee narrative arrivano da un gruppo musicale torinese, i Totò Zingaro, che mi hanno commissionato la storia con l’idea di farne una narrazione di supporto a un disco di canzoni dedicate ai personaggi principali della vicenda. Poi la scrittura mi ha un po’ portato via, si è allargata, è esplosa, e ne uscito il romanzo.
I luoghi in cui viviamo hanno un peso nella formazione della nostra personalità, sono le nostre origini, eppure a volte è necessario abbandonarli, da cosa dipende secondo te?
Hanno un’incidenza, possono essere infidi, giocano di sponda, ci cambiano e non ce ne accorgiamo. Perché siamo abituati a puntare il dito, a colpevolizzare persone specifiche o ambienti circoscritti (l’ufficio, la condizione famigliare) e non un intero sistema. Qualcuno a un certo punto se ne accorge, gli esce una vista più lunga e può fare tre cose allora: andarsene davvero, come dici tu (sempre a poterlo fare), accettare e tirare avanti (come fanno i personaggi di Pontescuro) o auto esiliarsi sul posto, fuggire da fermi insomma, estraniarsi.
Chi è, se c’è, il tuo personaggio preferito?
Ce ne sono due o tre e in questo lunghissimo giro di incontri con i lettori mi è stato chiesto più volte. Ho dato risposte sempre diverse. Forse perché c’è qualcosa di me in ognuno dei personaggi (persino in quelli che sono elementi e non umani, la nebbia, il fiume…). Vale anche per le figure negative, che in Pontescuro abbondano. Credo sia fondamentale non chiudere gli occhi quando ci scopriamo rabbiosi, invidiosi, vendicativi, gretti e in miseria morale. Capita a tutti una volta o l’altra (o più volte) e se vogliamo cambiare la direzione ci tocca impugnare un timone, cioè aprire bene gli occhi.
Ma per tornare alla tua domanda, oggi ti dico Zuntura, che è poi il personaggio che adotta il piccolo trovatello Ciaccio. Zuntura significa “aggiustatutto”, è quello il suo ruolo nella comunità di Pontescuro. Per svolgerlo bene Zuntura è diventato un uomo di poche parole e di molte osservazioni – osservare, dice lui, è la prima azione per aggiustare qualcosa che si è rotto, che sia un aratro o un uomo – e questo è anche il motivo della sua profonda conoscenza di Ciaccio, che è un essere trasognato e incomprensibile a tutti gli altri paesani perché ha regole morali che nascono dalla purezza, non ha filtri d’astuzia né obiettivi di scalata sociale, insomma è uno straniero in casa, un figlio dell’orizzonte, un matto.
Stai lavorando a nuovi progetti? Puoi anticiparci qualcosa?
Sì, ho terminato un romanzo completamente diverso per tono e struttura. L’aspetto favolistico, la parabola, l’acquerello o la miniatura, ho riposto tutto nel cassetto. Ci saranno invece gli anni 70, il terrorismo, molta musica e l’educazione a tutto tondo di un ragazzino che cresce in quell’Italia lì.
Ti sei mai interessato delle filosofie orientali?
Mi fa molto piacere la tua domanda perché Pontescuro è il mio libro di spiritualità, lo dico con enorme pudore, sia inteso… Forse li ho lasciati volutamente un po’ in sottofondo, ma ci sono molti concetti dalle filosofie e religioni orientali, in particolare dal buddismo, che sono finiti nelle pagine della storia.
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Luca Ragagnin è paroliere e scrittore di romanzi, racconti, poesie e opere teatrali, altre informazioni qui.
Immagine di copertina: foto di Alberto Trentin.
Consigli di lettura: un’altra storia ambientata lungo il Po, nella Bassa padana, è La rivoluzione, forse domani di Rosa Mangini.