Parole e patate | Racconto di Luca Hopps

La mia migliore approssimazione di libertà di Luca Hopps

Parole e patate è il racconto vincitore del Premio InediTO – Colline di Torino 2018 ed è ora inserito nella raccolta La mia migliore approssimazione di libertà di Luca Hopps, pubblicato ad aprile 2019 dalla casa editrice Il Camaleonte Edizioni.

Nella raccolta di racconti, prima opera di Luca Hopps, si leggono pagine strappate dal diario di un bambino degli anni Settanta e una storia dalla temporalità discronico-caotica di una famiglia Istriana, tagliata dalle linee di faglia di foibe e alterne pulizie etniche. A seguire un “a-fresco” esteso della piazza di Jaffa, dove si intrecciano storie non comunicanti di ebrei e musulmani. E poi, con una serie di salti di immagine e leggere variazioni di stile deliberatamente disorientanti, la raccolta si chiude con una collezione, rimasticazione autobiografica, di appunti di viaggio reali o dell’anima. Eppure una linea rossa si trova: il mare, la guerra come stato dell’anima, l’amore, il rosso della voluttà, l’infanzia, il racconto in prima persona, il pensiero altro, sono i canoni su cui l’autore divaga.

Buona lettura.

PAROLE E PATATE

Alfonsina

Ci sono quattro misurini in alluminio per il latte.

È caldo il latte di Lucia e Floriana. Le mie mucche. Va beh, sono di papà. Ma io a Goran gli dico che sono mie. Il suo papà, Pold, ha una capra. Non si vende porta a porta il latte di una capra, mi dice papà. È poco. Lucia fa più di una latta grande di alluminio. Floriana ne fa un po’ meno. Di una latta grande, quella che mi arriva alla pancia, voglio dire. Lucia e Floriana fanno due latte in due. Ma Floriana ha delle belle mammelle.

La sera a Bakar c’è il vento. La casa di Goran è a metà salita. Papà ci arriva sempre con il fiatone. Apre la porta della casa di Amelia. Amelia è la moglie di Pold, la mamma di Goran. Si leva di spalla la latta grande. E dice infilando la testa nell’uscio: «Latte!» A me sembra che lo dica solo ad Amelia. Dentro ci sono tutti però, Amelia, Pold, e pure Zizzì, il prete ortodosso. Papà, io, Lucia e Floriana, invece noi siamo cristiani.

Ci sono quattro boccali per il latte. Uno è quello da un litro.

Papà ha pochi capelli, la pancia da renna, le spalle all’ingiù. Ma quando mi prende in braccio mi fa volare in alto.
Adesso di meno, peso di più. Anche Goran pesa di più.

Amelia si affaccia. È piccola, con un culone, e la bocca grande. Mi fa ridere Amelia quando mastica. Una volta si è fermato il mini circo di Pirano vicino al molo. C’erano capre, galline, conigli, un clown bianco, sporco e senza bottoni, e un lama. Amelia mastica come un lama. Per questo io la chiamo Lamelia. L’ho detto a papà una volta, mi ha detto che sono impertinente. Ma si vedeva che pure lui lo pensava. Solo che ancora non aveva trovato l’animale giusto.

A casa di Goran arriviamo all’ora di cena, sempre alle nove meno dieci. Zizzì ascolta la radio che parla di guerra. Si sente dalla porta. Papà infila la testa nell’uscio come una tartaruga al contrario. Ma non entra. Esce odore di zucca, e di uovo fritto, e peperoni e pomodoro. Goran non mangia molto. Non ha fame. Non è un bambino famoso. A volte gli fanno male le orecchie.

Poi c’è il mezzo litro. Io li porto tutti e quattro, i boccali del latte. Papà la latta grande.

La latta grande ha un manico come quello di un secchio. Mi piace il rumore di secchio quando papà la alza e gira il manico. Per versare il latte. È come quando mi solleva, mi mette di lato, e mi alza la fronte per farmi bere alla fontana.

Lamelia arriva masticando. Papà mi guarda di lato e sorride di lato. Io pure. Ma senza farlo vedere, a Lamelia.

«Oggi un litro, Luì». Luì è papà. Non te l’avevo ancora detto il suo nome.

Buono il caffè sul molo di Fiume. Goran dice che devo dire «Rijeka» e non «Fiume». C’è vento sul molo. È bello stare seduti. A volte passa Pilar. Si morde i palmi dalla parte di dentro. Da allora sta sempre lontana da me. Se sapessi scrivere starei ore seduta a guardare la gente che passa e a vederli quando nessuno li vede. Si illuminano. Se sapessi scrivere.

Ma il rumore del latte di Florialucia… sì perché papà li mischia… quel rumore lo so anche rifare. Il latte fa il suo rumore speciale quando papà lo versa in uno dei miei misurini. Un litro, un mezzo, un quarto. Ma sui misurini c’era 1L, 1/2L, 1/4 L. Oggi un litro Amelia. Papà lo riempie fino quasi all’orlo, anzi sopra, il latte è denso e fa la pancia sul bordo. Papà glielo passa come un neonato, e poi segna un appunto sul suo quadernino. È morbido, il suo quadernino dei crediti.

Erano morbidi i suoi crediti. È buono questo caffè, e tu sei un bravo turista italiano che mi stai a sentire, che ti parlo di me. Mi chiamo Alfonsina. Ero la figlia del lattaio. Luì. Se ne sono andati tutti. Pold, papà, Amelia, Zizzì, perché settanta anni sono troppi per portare il latte ogni sera. L’uovo fritto col pomodoro e il peperone. Quelli ancora ci sono a Bakar.

Io però mi nascondevo un poco dietro papà, perché poi dopo Lamelia, tante volte, arrivava pure lui. Goran. Si affacciava nascosto un poco dietro la porta. Mi fa un poco che… mi va di vederlo. Mi va, che mi sa, che gli va, di venirmi un poco a vedere. Se c’è Goran allora reggo io il misurino del latte e papà versa. E io lo do, il misurino bambino, a Lamelia. Mi trema un poco la mano e fa tremare la pancia al misurino.

«Ohi che lipa dijevoika!» mi dice la mamma di Goran. E a me mi dà fastidio, perché mi tratta come la figlia del lattaio. Che vende il latte delle vacche. Papà mi dice, quando andiamo via, che è una famiglia importante. Il nonno di Goran ha la camicia nera e i pugni chiusi.

A me non mi piace come mi dice «lipa dijevoika», per dirmi bella bambina. Che poi io non sono bella.

I misurini del latte sono quattro.

Il più piccolo è solo mio.

Ma lo porto perché alla fine del giro del latte, allora papà mi dice serio «Latteee!» e io «Arrivo Luì, allora per me un minilitro! Oggi i gattini hanno fame».

Me lo riempie subito fino all’orlo, anzi sopra. Non versa mai una goccia. Manco io. Non mi trema la mano.

Mi chiamo Alfonsina. Una volta il mio minilatte l’ho portato a Goran che stava a giocare fuori dalla porta. Quella volta Goran mi ha dato un bacetto. Sì insomma, sulla bocca. Sapeva di latte di Floriana perché Floriana fa il latte alla menta. C’era odore di mucca.

Perciò Goran si nasconde dietro la porta. Perché si vede sennò che diventa rosso di pensieri di baci.

Mi ha dato un bacio alla menta.

Mi chiamo Alfonsina la figlia del lattaio. Ma Lamelia e Pold e Zizzi sono morti. Non può essere sempre maggio per settanta anni. Ora vado turista italiano, buono il caffè!

Pilar

Vengo da Bakar. Sono tornata.

Porto il vento dentro di me e le mie parole. Il vento toglie il fiato.

Mi chiamo Pilar. Pilar la secca. Pilar la scema. Pilar la pazza che si morde i polsi. Sì! Cammino e mi piace fissare gli uomini per strada. I ragazzi pelati che portano per mano le loro belle barbie coi sandali. Li guardo e mi mordo i polsi e i palmi.

Le mani sono sporche e rido mentre mi mordo i polsi. E guardo. E danzo con le spalle. I padri con le bambine, i ragazzi in gruppo. Li guardo uno a uno. Alcuni ridono. Altri abbassano gli occhi. Ma quelli, quelli là, stringono la mano alla Barbie. E mi guardano. Un secondo, e c’è il fuoco, la mano è sporca. Sa di sale e ferro di treno. Mi tinge le labbra di ferro di treno.

Pulisciti la bocca Pilar di Bakar.

A Buccari, dicono, il vento sposta il tempo settanta anni indietro.

C’è la taverna di Goran. Dicono che a volte, le sere d’estate, Goran ritorna. A cucinare orata e calamari e
crauti. A parlare gentile. Apparecchia solo per gente felice. Non c’è molta gente. Vladimir, al massimo, si siede fuori, coi suoi piedi deformi e carote al posto di dita di mano. Che schifo! È coperto di una pelle di terra e sudore e grasso di pelle e poi terra. Puzza.

Io odoro di saliva, cipolla e rosmarino.

Mi piace il mio odore. Mi odoro le braccia mentre cammino nel corso di Rijeka. Oggi come settanta anni
fa. Mi piace la luce del mare di Fiume. Il vento ti toglie il fiato. Il vento quando guardi il mare ti porta gli spruzzi del mondo. «Pilar com’è l’oceano?» mi chiedono a Bakar. L’oceano è… ti spinge una mano di vento in gola se lo guardi in faccia dall’alto. È l’acqua di tutta la terra che ti tiene lontana. È una cosa seria l’oceano. Stai al tuo posto Pilar.

«E il mare di Bakar?»

È un oceano pure lui.

Stai al tuo posto ragazzina!

Ero uscita dalla fila. La fila era lunga. Vladimir aveva una pistola. La puntava alla testa del primo della fila se
non si buttava nel fosso. Si buttavano vivi da soli. Un colpo alla testa era morte sicura. Mamma stava davanti a me. In fila.

Mi odoravo le braccia, sapevano di riso e burro e rosmarino.

I polsi di zafferano.

Tirava la bora. Il mare e la bora ti portano all’oceano.

Un vecchio non si è buttato da solo. Si è fatto sparare. E poi l’hanno buttato.

Non si sente quando arrivano in fondo. Ma quelli che si buttano vivi urlano un nome. Ognuno un nome diverso.

Vladimir non ha tanti proiettili. Ha capelli neri, unti e lunghi, sembrano di seta. Non porta stivali. Ha piedi
brutti sicuro, dentro quegli scarponi da clown senza bottoni. Non mi fa ridere.

C’è vento di bora. Mi chiamo Pilar, Pilar la secca, la bionda Pilar, Pilar colle tette piccole. A Rijeka, per il
corso, qualcuno ogni tanto mi stringe la mano. Cestitke. Non è mica una recita. Non faccio l’artista. Sono una pazza di strada.

Il vento ti leva il respiro. Ti ferma i pensieri.

Vladimir ha sparato a mamma. Ma prima lei ha urlato il mio nome. Pilaar. Ho morso la mano e i polsi. Sapevano di terra e di ferro di sangue. Ero bambina. Mi ha preso i capelli. Se solo fossero stati rovi, i miei capelli! Volevo ferirlo coi miei capelli. Sono caduta. Nel buco.

Nel nero. Un rumore di vestito strappato, e poi uno strano come di carne strappata. Nessun dolore. Mi sono messa a contare.

Uno.

Pilar, mi chiamo Pilar di Bakar. Lo vuoi un bacio, turista ungherese di fiume? Mi mordo le mani, ti sorrido e mi avvicino al tuo collo e lo odoro. Odora il mio alito, senti.

Due.

Ora lo sento io, il tuo odore ungherese. Turista. Non ti mordo, l’ho visto il tuo sguardo. Stringi la mano alla
Barbie.

Tre.

.

.

.

Quattro.

Ho sbattuto la testa su una cosa morbida e calda come un cuscino. Come un abbraccio. Come una pancia. Ci
sono entrata dentro. Sono morta.

A Bakar il vento è contrario. Ti spinge alle spalle e ti leva il respiro, se solo provi a girare le spalle al mare.

Voltati, lo devi guardare.

Quando sono risorta era buio. Mi è caduto vicino un corpo. Sparato. Non c’era vento. Puzza di cacca e sangue e pipì.
L’aria ferma. Dove può andare l’aria se non stare ferma in quel nero. Cadevano cose ogni dieci respiri. Vladimir aveva fretta.

Mi siedo per terra nel corso di Rijeka. Mi tiro su la veste. Sono settanta anni che ho sette anni. E sono bella.

Pilar! Sei secca ma sei bella e il sole ti illumina. Pazza che sei Pilar.

Cadevano corpi. Ci vuole speranza a contare fino a tre, e tutti, quasi tutti morivano senza contare. Cadere nel nero è morire e basta. Tranne me.

Poi la pioggia è finita. La Voce di Vladimir ha urlato qualcosa.

E poi niente.

E poi niente.

E poi niente.

E poi, per non mettermi a piangere, ho urlato il mio nome. Pilaar di Bakaar. Se volete venitemi a salvare. Ma vi prego lasciatemi stare a guardare il mare. L’oceano è onesto, ti blocca il respiro col vento.

Stai lontano ti dice,

se ti metti a guardarlo.

Sembra un fosso ma ha la luce del mare.

Vladimir

Perché ogni volta devo strapparti l’attenzione?

Mi chiamo Vladimir, per Dio! Li vedi i miei occhi? Sono stanchi, sporchi! Opachi? Sì lo sono. Io, per Dio sono opaco. Io, Vladimir. Vlado per i camerati. Vlado per mia madre. Vlado per i compagni. Vladimir per mio padre. Che cambia quando ammazzi ed è la cosa giusta da fare. Dimmi tu allora come mi chiamo, e non tormentarmi. È la cosa giusta da fare, ma non vuole farla nessuno. Puzzo? Lo so che puzzo. Ma io non lo sento, a parte le ascelle. Ma no… la puzza mia di merda no. Vaffanculo che puzzo… non mi lavo. Ci vorrebbe un sapone sgrassante per lavare la mia anima. Se l’anima è sporca, a che vale lavarsi di fuori? Eravamo giovani settanta anni fa. Era l’estate dell’anima. Era la guerra. E vaffanculo, devi decidere da che parte stare. Ma se la guerra entra dentro le case e tira confini tra la cucina e il letto, allora la guerra ti strappa la mamma dal cuore. Lo senti il mio alito? Alcol e marcio di denti.

Se mi odori non mi scordi. Camminami a fianco, turista italiano. Rijeka è bella, sul corso, d’estate. Io ci vengo per questo, anche se è pieno di Italiani. La gente pensa che io sia un accattone. No, io non chiedo monete. Non chiedo niente. Che cazzo volete? Non parlo mai. Ma tu mi hai guardato troppo a lungo. E allora vieni, cammina con me. Guarda Alfonsina che prende il caffè insieme a te. Solo a Rijeka puoi essere ubiquo.

In fondo Goran, nipote di Vlado, fa bene a tenersi Alfonsina. Sono settanta anni che se la tiene. Sono settanta anni che se lo tiene. Ancora la tiene col suo parlare gentile.

Ora lasciami in pace italiano.

Che devo camminare.

Che devo pensare.

Che devo sparire.

La nave albergo viene dal 1918. Ha un vestito di fine ottocento. Grigia. Anche il mare e il cielo intorno sono
grigi. Ma la vedi, sta nel porto. È tornata vuota dall’America.

Il cielo a Bakar era azzurro splendente.

E quella bambina in fila. Sette anni.

Toccava di tanto in tanto pure guardarlo quel cielo. In basso c’era solo quel buco. E io sull’orlo, a fare quello
che si doveva fare. Vaffanculo! Qualcuno queste cose le deve pure fare. Se hai scelto da che parte stare, allora zitto.
No, non ne provavo gusto. Anzi sì cazzo, alla fine sì. Rubare l’ultimo sguardo di un vecchio, di un uomo. Ti
fa sentire potente. E poi lo scaraventi nel fosso. Avanti un altro, o un’altra. Aspetta. Tocca pur certo guardare in alto. Un pezzo di te è andato nel fosso.

Oh, come vorrei parlare come Goran! Lo sento da fuori quando sto sulla panchina, sotto la veranda della locanda. Ragiona con parole che si muovono come nel letto di un fiume. Fluide.

Fa caldo. Non mi aiutano i sandali. Che altro portare se hai piedi deformi e mani deformi. Con dita di piedi e di mani che sembrano carote piantate alla rinfusa. Prima non ero così. Quando la guerra era grande, guardavo il cielo azzurro, non c’erano fossi, Mila mi amava. Mila era bella e aveva fianchi duri come meloni. Ma Mila detestava i deformi. Perché non siamo tutti uguali, siamo diversi. Mila diceva che c’è gente migliore.

Ho preso Dragomir e Bogdan e gli ho detto cosa dovevano fare. Rastrellare il paese e portare tutti dove c’è il fosso. E che il rastrello arasse pure famiglie in solchi distinti. Chi sul monte, chi nel fosso. Che l’uomo separi ciò che Dio non doveva unire.

Non si può guardare a lungo nel fosso.

Se alzavo lo sguardo il cielo era azzurro.

Ora, per me, il cielo di Rijeka si confonde col mare. È tutto opaco il mio sguardo. Settanta anni che guardo il cielo per non guardarmi i piedi e le mani. Poi mi dicono Lavati Vlado! Lavati tu, se non ti fa schifo vederti le mani deformi!

Eppure, fa bene il sole in faccia. Fa ancora bene sentire l’odore del mare.

Vlado vuoi un caffè?

Sicuro!

Mi siedo al tavolino, anche se puzzo, anche se per quanto sono brutto la gente non mi vede. E bevo il mio caffè, e guardo la gente che non mi vede. Per questo la vedo. E vivo questo teatro, un circo unto, colorato e sudato. Anche in questa vita deforme, anche se sono solo, anche se Mila è andata in America con quella nave, nel millenovecentodiciotto, quando stavo per dirle: mi manchi!

.

.

.

Solo i vivi sentono il sole. Solo i vivi, per questo hanno ragione. Perciò i morti marciscono nel loro torto. Hanno torto, a non essere vivi. È colpa loro. Perciò chi ha torto, da vivo, allora merita di essere morto. Anche se ha sette anni, anche se è secca, ma ha un nome strano, Pilar. Anche se l’avevo presa in braccio, e più di una volta.

Se guardi troppo a lungo nel fosso il fosso comincia a guardare te.

Per questo guardo il cielo. Quel nero del fosso ti buca il fondo degli occhi, e il nero ti resta in fondo… e non lo lavi neanche con il sole, alla luce del sole che brucia. Ma almeno ti senti vivo. Sei tu che hai ragione. La ragione è dei vivi.

La spingo nel fondo del fosso. Non vuole cadere. Le prendo i capelli, mi strappano la pelle. Mi ferisco, come
con una mano nuda fra i rovi. Non vuole cadere, nel fosso. La sollevo, sta appesa, pesa molto meno di Mila.

Mi ha guardato mordendosi i polsi con le mani al rovescio.

Mi ha sorriso come una pazza.

L’ho lasciata cadere.

È calda la sera a Rijeka. Il mare odora di sarde e petrolio. È onda di cioccolato e arance. Dimmi se non è bella la vita, anche se l’ho uccisa. Ogni giorno, da allora, lei mi guarda e cammina, e sorride, e si morde i polsi al rovescio. E sbava.

Ha una maglietta sporca e le sono cresciuti dei piccoli seni.

Hai capito adesso, straniero.

Goran

Mi aspetti da tempo, ma io mi nascondo. Io sono Goran.

Quello della taverna di Bakar. Dove scegli il pesce o la carne. Per entrambi è il posto giusto. Goran che si nasconde tra le gambe di nonna. Goran, il nipote di Vlado il selvaggio. È così faticoso essere gentili, e la taverna è dove finiscono gli ubriaconi del paese.

Io volevo una taverna per gente felice. Il menù di ogni giorno scritto dal mare e dai Balcani alle spalle. I Balcani sono monti duri. I Balcani sono troppi. Mezza Europa di monti ammucchiati.

Prima c’è il posto. I monti, il mare, i fiumi. Sono loro che fanno da mangiare, il vento, la pioggia la luce.

Poi viene la lingua, e poi il carattere della gente. Tutto scolpito dai monti, dal mare, dai fiumi.

Qui puoi scegliere frittura o stinco di porco. Ma le due cose non si mischiano e non vanno d’accordo. Qui è Balcani.

Io apparecchiavo la tavola con stinchi di maiale e rafano e birra. Ma il mare è a dieci passi qui nell’anfratto di Bakar. E allora, anche frittura di calamari e vino bianco. Volevo apparecchiare per gente felice.

Volevo Alfonsina felice in cucina.

Quando suo padre bussava alla porta di nonna, io sapevo che c’era anche lei. Era gentile il papà di Alfonsina. Con la pancia da renna e la testa pelata, bruciata dal sole e dal vento.

Ho aperto la locanda per lei. La gentilezza va restituita. Mi ha dato baci alla menta. La gentilezza dura di più
della giustizia. Per questo Vlado mio nonno lo tenevo fuori. La giustizia è una lama che taglia.

La locanda di Goran a due passi dal molo. Per gente gentile. Veniva Pilar di Alfonsina. Era la mia Pilar. Era
secca, ma mangiava lo stinco di maiale come se fosse uscita affamata di vita da un buco profondo.

Alfonsina. Eravamo un poco più grandi.

Lei veniva ancora, accompagnava il papà a portare il latte. Ma non era più bambina. Ma non era ancora donna. Veniva per me. Ora ero io ad aprire la sera e a prendere il latte. «Vado io nonna!»

Questo perché, mentre l’uomo con la pancia di renna versava il latte nel misurino, noi avevamo un’eternità di tempo per guardarci negli occhi. Ed era gara a tenere lo sguardo. Io lo abbassavo. Il latte riempiva il misurino. Era quasi il momento di prenderlo in mano quando il gorgoglio si faceva di un tono più acuto. Ma c’era ancora un’altra eternità di due secondi da spendere. Alzavo lo sguardo. E il suo di Alfonsina era lì. Non lo aveva mosso di un grado. Mi guardava dentro le scarpe del cuore.

Vlado detestava gli italiani. Diceva che erano gente di mare. A lui non piace l’acqua. Non sa nuotare. Non
vuole sapere come si nuota.

Ho preso una baracca di fronte al fiordo di Bakar. Volevo essere gentile.

Ho preso Alfonsina, o forse viceversa. E dal fondo delle scarpe del mio cuore, lei ha impastato nel suo ventre Pilar. La secca mia bambina.

La guerra. Ho chiuso la baracca e la locanda.

Vlado era sull’orlo del fosso, e ci sparava gente dentro.

Io ero nascosto tra le pietre. C’era la luna.

Vlado mi avrebbe costretto a servire quella macabra messa se solo mi avesse trovato.

Io non sono il chierichetto di nessuno. Non servo a servire.

Alfonsina la mangiavo di baci sugli occhi. Lei in cucina.

Io a servire ai tavoli.

Nel mio menù c’erano frittura, birra, stinco, pomodori e olio, rafano. Patate e parole.

Da dove vieni? Bravo che sei, turista italiano, a scegliere la birra invece del vino. Almeno ci provi a mischiare.
Anch’io ci ho provato.

Stasera c’è vento.

Bisogna stare a un passo quando si prendono gli ordini. Stare sull’uscio, ascoltare, capire. Se stai a un passo metti a fuoco bene. Basta guardare e ascoltare, anche se non ci sono parole, e uno lo capisci cosa vuole da mangiare. No, se permetti oggi per te ho un sogno di gamberi. Fidati di me, sei in famiglia.

Vendo attenzione, e ascolto, mica gamberi fritti. Roba fatta in casa. Roba di Alfonsina, gli sguardi attenti che
ho per la mia clientela.

Non sono il chierichetto di nessuno.

Vlado ha spinto mia moglie nel fosso. Lei ha urlato mentre cadeva.

Pilaar…

Ora apro ogni settanta anni. E decido io chi entra.

Siediti lì Pilar, bambina mia. Nell’angolo, così guardi tutti. Non morderti i polsi. Non fissare. Sembriamo tutti
fantasmi. Forse lo siamo. Ma facciamo finta di essere vivi. Alfonsina è in cucina.

Entrano due turisti italiani. Una coppia. Sono belli a vedersi. Si prendono in giro. Lui non ha paura del vento
e del buio e del mare. Lei non ha paura di Vlado seduto di fuori con i suoi capelli a bava di ragno.

Mi chiamo Goran apriamo ogni settanta anni.

Oggi ho per voi frittura di calamari, la birra la regalo io.

Parole gentili e patate.

Di solito funziona, finché Alfonsina è in cucina.

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