Il paesaggio, l’amore e il dolore | Intervista a Germana Urbani

Germana Urbani | Chi se non noi | nottetempo edizioni

Romanzo d’esordio di Germana Urbani, Chi se non noi è una storia di finzione che si insinua nelle verità del cuore, della testa e della pancia. Il paesaggio, come in una fotografia di Ghirri, partecipa alla narrazione più come attore che come palcoscenico. Protagonista è Maria, una giovane donna, un architetto con capacità e intuizione; chi se non noi è la frase che caratterizza la sua storia d’amore, una storia che a breve si trasformerà in convivenza, famiglia e nuova vita. Questa è la fotografia che Maria ha scattato e attende di entrare nella camera oscura per svilupparla. Ma qualcosa va storto, qualcuno accende la luce e la pellicola si brucia.

Da quel momento Maria entrerà in una spirale di dolore, in una ricerca di senso nel non-senso, in una solitudine che lei vuole ma a cui è allo stesso tempo confinata, poiché -come Maria stessa dice- Il dolore fa schifo. Un puzzo tremendo. La gente che può fare? Ti evita. Per forza. E questa semplicità nell’affermare la verità di un sentimento, nel mostrare la crudezza di una constatazione, è la forza del romanzo stesso.

Oltre alla storia in sé, di cui non aggiungiamo altro per evitare antipatiche anticipazioni al lettore, riscontriamo due aspetti degni di nota: la scelta linguistica e il paesaggio. Germana Urbani sceglie di usare alcuni termini e frasi del dialetto, lo fa con grazia e profondo senso di riconoscenza per una tradizione che sta scomparendo; il dialetto non è solo caratterizzante la casa della famiglia contadina o il nonno, quindi funzionale alla narrazione, ma ribadisce un valore popolare che rappresenta un’identità. Sul paesaggio possiamo dire che la passione per la fotografia -di Germana e Maria- mostra al lettore luoghi, linee e luce, così che quella terra del delta del Po sembra di scorgerla veramente. È così che il paesaggio prende forma, piega come le linee di un corpo di donna, si esprime con la sua voce appena appena sussurrata e dialoga con l’animo in tumulto di Maria. Chi se non noi è un romanzo che cerca e restituisce identità al contempo.

Intervista

Cosa ha ispirato la scrittura di questo romanzo?

Questo mio romanzo nasce da una domanda che mi colonizzava da anni: cosa accade nella mente di una di quelle persone che, dopo essere state lasciate dalla persona che amano, non riescono a trovare ragione né volontà per voltare pagina; e, anzi, coltivano il dolore, la gelosia, l’odio e arrivano al punto di uccidere il partner?

Non volevo, però, raccontare un atto di femminicidio, quello non mi interessava. A me interessava capire e, dunque, scrivere l’ossessione dolorosa e oscura in cui si può impigliare il pensiero umano più spesso di quel che crediamo. E ancora mi chiedevo cosa era venuto prima dell’atto finale: i due protagonisti erano una coppia veramente felice come poteva sembrare?

Per anni, come giornalista, avevo seguito il lavoro del Centro anti violenza del Veneto: donne coraggiose che aiutano altre donne anche a chiamare per nome il disagio che troppo spesso vivono tra le mura domestiche. Violenze psicologiche, economiche, vessazioni che le donne accettano perché si trovano imbrigliate in rapporti tossici, dipendenze affettive difficili da spezzare.

C’è un motivo per cui hai scelto di mettere così a nudo le debolezze e la rabbia (o lo sconfinamento della rabbia) della protagonista?

Credo nella verità della scrittura, non credo nella narrativa balsamica, consolatoria. Anche se i lettori e le lettrici la preferiscono, e lo dice il mercato del libro, non io.

E poi va detto che ogni scrittore ha un’ossessione, a volte più di una! La mia è sicuramente l’interesse per la malattia mentale che, purtroppo, per la nostra società rimane un grande tabù di cui parlare il meno possibile. Fin dai tempi degli studi universitari mi sono appassionata a tutte quelle poetesse che avevano incontrato nella loro vita la malattia mentale e che ne avevano scritto, con coraggio, disincanto, passione.

Non esistono più i manicomi, per fortuna, ma la vergogna legata anche solo a un crollo psicologico che può capitare a chiunque dopo un lutto, per esempio, rimane fortissima e presente nella società. Credo che parlarne, anche in narrativa, serva a superare il tabù.

Certo non è facile. Come scrittrice, quando ho riflettuto su quale poteva essere il modo giusto per descrivere il dolore psichico di un essere umano ad un altro essere umano, mi sono detta che dovevo farlo attraverso il corpo. La sofferenza psicologica, di qualsiasi natura essa sia, riverbera sempre sul fisico. E di quello ho cercato di parlare, soprattutto per non incorrere nel melodrammatico che non mi piace e non ha nulla a che fare con la verità.

Maria e il paesaggio, il delta del Po, sono protagonisti ex equo del romanzo, sono così in sintonia che sembrano dialogare. Quanto pesa nella narrazione il luogo in cui Maria vive?

Per raccontare la storia di Maria ho dovuto in qualche modo delineare un’epica del personaggio legata al luogo e alla sua condizione di nascita. Credo che i luoghi geografici e storici in cui si consumano le vicende umane abbiano molto peso sul destino che spetta ad ognuno. Ecco perché ho scelto di ambientare il romanzo in un posto dove 70 anni fa c’è stata l’alluvione più importante e tragica della storia d’Italia. Un evento che ha determinato in modo assoluto il destino e la psiche dei suoi abitanti, nell’intimo “sempre pronti alla fuga”.

Quindi non ho scelto il Delta del Po veneto a caso e, certamente, ne ho fatto un protagonista tra gli altri protagonisti. Volevo fortemente che il paesaggio fosse in dialogo con Maria, ho cercato di creare una sorta di controcanto geografico e naturale che seguisse la mente della protagonista nella discesa verso l’ossessione ma che aiutasse, al contempo, il lettore a non esserne inghiottito.

L’uso del dialetto e di specifiche parole ha un’origine ben precisa: ce ne vuoi parlare?

Un paesaggio non è solo luogo, flora e fauna ma anche la lingua che vi si parla. Anche qui ho fatto una scelta, ho deciso che qualche parola dialettale poteva esserci, innestarsi in modo naturale con l’ambiente, soprattutto là dove a parlare è un personaggio minore che vive l’ambiente rurale della cultura contadina. Per anni molti di noi si sono vergognati delle povere origini contadine, della propria lingua madre, il dialetto. Io stessa ho fatto fatica a riconciliarmi con queste radici antiche e sono stati dei grandi maestri ad aiutarmi: Zanzotto, Rigoni Stern, Meneghello, Camon. Grazie a loro ho rivalutato la mia storia e la mia lingua e, nello scrivere, ho voluto fortemente riproporla ai lettori.

Cosa ti sta restituendo questo romanzo?

Non è facile dirlo, perché davvero è tanto, tantissimo. Molte persone dopo averlo letto hanno sentito il desiderio o l’impulso di scrivermi per dirmi quanto si sono ritrovate in questa storia, quanto alcune cose che prova Maria hanno risuonato anche dentro di loro pur non avendo vissuto niente di simile. E questi racconti dei lettori sono per me un grande regalo.

Poi c’è un altro aspetto che mi sorprende e mi fa molto piacere: quest’estate molte persone che hanno letto il libro sono state sui luoghi del romanzo e mi hanno mandato le foto. Tutto questo è meraviglioso e conferma che la lettura, come la scrittura, è soprattutto un incontro sia con qualcosa che ci appartiene già sia con ciò che ancora possiamo conoscere.

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Informazioni su Chiara Stival 115 Articoli
Chiara Stival è curatrice dei canali arte e cultura per Italiandirectory e copywriter per i contenuti web e social media di alcuni clienti del magazine. Promotrice di eventi artistici e rassegne letterarie, è stata editor della collana Quaderni di Indoasiatica per passione e formazione universitaria dedicata all’India. Il suo blog è chiarastival.com, potete visitare il suo profilo su Linkedin, Facebook e Instagram.