Durante quel viaggio l’immagine avrebbe potuto staccarsi, isolarsi, mettersi in evidenza. Sarebbe esistita se fosse stata scattata una fotografia, come altre immagini sono esistite in altre circostanze. Ma la foto non è stata fatta, la situazione era troppo insignificante per provocarla. Chi avrebbe potuto pensarci? Per fare quella foto, bisognava prevedere l’importanza di quell’avvenimento, di quell’attraversamento del fiume, nella mia vita.
Marguerite Duras
Ci chiediamo se, tra tutte le arti visive, la fotografia sia diventata quella più popolare. Il dubbio è lecito, sopraffatti dalla quantità di immagini che quotidianamente vediamo scorrere davanti ai nostri occhi nei media di fattura cartacea o virtuale, senza contare l’esuberante produzione dei social, dai più generici a quelli specializzati. Assistiamo, attivamente o passivamente, a una sorta di self-made photograher. Il fenomeno è alquanto interessante perché mette in luce quel bisogno atavico dell’essere umano di raccontare la propria storia, a se stessi e agli altri. Questo sentimento che accomuna gli uomini ha portato alcuni di loro, fin dall’origine dell’arte fotografica, a spingersi -per sensibilità o per volontà- in una strada ben determinata, riconoscendoli poi come paesaggisti o ritrattisti, fotoreporter o documentaristi.
La domanda conseguente è dunque: chi è un fotografo? Qual è la caratteristica che lo differenzia dalla molteplicità di coloro che fotografano? La risposta si può riassumere nelle parole di Micheal Freeman, affermato fotografo inglese, in La mente del fotografo, «una foto bisogna pensarla prima che scattarla»; questo concetto si collega inevitabilmente alle osservazioni di Sergio Staino e Nino Migliori [intervenuti alla conferenza “Cosa guardi? La cultura delle immagini” organizzata qualche mese fa da Fabrica], i quali si soffermano sulla necessità di educare all’immagine, per imparare a “leggerla”, poiché nella composizione fotografica ciò che ha valore è l’effetto risultante al nostro occhio. La struttura dell’immagine sottende una tecnica fondamentale della fotografia: la consapevolezza che il nostro occhio legge abitualmente da sinistra verso destra, dall’alto verso il basso, e si concentra in alcuni punti d’interesse dell’obiettivo, assunto che non può essere d’uso e consumo dello scatto impulsivo di uno smartphone. È fondamentale avere la libertà di giocare con le immagini, tanto quanto essere educati alla loro lettura visiva.
Nel panorama attuale di evoluzione tecnologica e di ricchezza produttiva, quantomeno in termini quantitativi, di fotografie virtuali o stampate, il CRAF, Centro di ricerca e di archiviazione della fotografia, sezione Friuli Venezia Giulia, propone un fermo immagine, una riflessione sulla storia della fotografia, limitando la ricerca al Veneto, foriera di grandi nomi di fotografi del Novecento. La mostra si intitola, per l’appunto, I fotografi veneti del ‘900 e sarà ospitata nello spazio espositivo della Chiesa di San Lorenzo, grazie alla disponibilità del Comune di San Vito al Tagliamento (PN) di farsi carico della tappa iniziale, finché non saranno perfezionati gli accordi che definiranno le sedi successive e le tempistiche dell’itinerario espositivo; come spiega Walter Liva, curatore della mostra, “c’è la possibilità che questa ampia raccolta sia ospitata in altre città e non solo a livello nazionale, infatti si sta già prendendo in considerazione l’ipotesi di un trasferimento in Francia e a San Pietroburgo, città con la quale il CRAF, al pari della stessa Regione Veneto, ha buoni rapporti di collaborazione.”
Nelle parole di Luigi Perissinotto, professore ordinario di Ca’ Foscari, scritte come prologo all’apertura della mostra osserviamo che “i fotografi raccolti in questa mostra sono tra loro molto differenti per intenti e per esiti, ma hanno consapevolmente -sia dal punto di vista tecnico che da quello artistico- svolto la loro attività di fotografi come esclusiva o collaterale ad altre […] accompagnando nel corso del Novecento la nostra storia e, attraverso le loro foto, ci hanno educato a vedere, il che significa anche sempre a capire. […] In questo senso, il Veneto o la Venezia di questi fotografi stanno a indicare più un compito da svolgere che un risultato da archiviare. Ma vi è anche un altro aspetto da sottolineare: molte di queste foto hanno un alto valore di documento […] nel senso in cui, per esempio, la poesia di molti poeti che hanno vissuto l’esperienza di guerra hanno documentato la guerra in maniera sicuramente differente, ma non marginale o secondaria rispetto alla documentazione nel senso specifico del termine.”
La peculiarità di questa mostra è indubbiamente il suo carattere antologico poiché annovera 130 fotografie sia vintages sia stampe contemporanee digitali, che sono state raccolte grazie alla competenza e professionalità del CRAF, alla sua vasta rete di contatti e collaborazioni; le fotografie espose provengono in parte dagli archivi del CRAF stesso e in parte dagli archivi dei singoli fotografi, come da istituzioni tra cui 3M Italia, il Circolo Fotografico La Gondola di Venezia, il FAST di Treviso e altri importanti Centri (Collezione Vanzella, Treviso; Archivio Zardini, Cortina d’Ampezzo; Collezione Cecere, Pordenone; Tipografia Bonomo, Asiago; Scuola di Fotografia nella Natura, Roma; Archivio Silvia De Biasi, Milano; Circolo Mignon, Padova).
La prima parte della mostra presenta gli albori della fotografia in Veneto nel XX secolo attraverso le immagini di Paolo Salviati, di Pietro Bertoja, scenografo teatrale alla Fenice, del fotografo e tipografo di Asiago Cristiano Domenico Bonomo, di Loredana Barbaran Da Porto le cui opere vennero pubblicate da Alfred Stieglitz su Camera Work. Sono presenti pure i pittorialisti Luigi Cavadini ed Ernesto Graziadei, Giacomo e Pietro Giacomelli impegnati a documentare fotograficamente industrie e istituzioni pubbliche veneziane; ci sono poi Antonia Verocai Zardini, la prima fotoreporter della Guerra 1915-1918, Attilio Barbon che sul fronte del Piave apprese i primi rudimenti del mestiere, e Antonio Zorzi; infine i pittori/fotografi Umberto Martina e Italo Michieli.
Un omaggio al capoluogo veneto è dato dalle immagini di Ferruccio Leiss, influenzato dal Manuale dell’estetica di Benedetto Croce nel rappresentare l’armonia delle forme e del bello; Leiss aveva aderito nel 1947, con Mario Bonzuan, al Circolo La Bussola fondato da Giuseppe Cavalli, per conciliare attravero le immagini istanze sociali e soggettivismo, documentazione e interpretazione. Realizzò paesaggi, nature morte e ritratti, ma soprattutto dedicò alla città lagunare gran parte della propria opera: una Venezia onirica, circonfusa di nebbia, decorata di geometriche ombre notturne. Tra i protagonisti del Circolo La Gondola, nominiamo Paolo Monti, capace di trasmettere alle immagini il senso di un ideale “…incontro tra la realtà fisica e la mente creativa dell’uomo…” come ricordò Rudolf Arnheim, quindi Gino Bolognini, Fulvio Roiter, apparso sulla scena internazionale come l’enfant prodige della fotografia italiana, vero interprete del neorealismo in fotografia; e poi Toni Del Tin, Giorgio Giacobbi, Gianni Berengo Gardin, Giuseppe Bruno, Libero Dall’Agnese, Sergio Del Pero, Carlo Mantovani e successivamente Gustavo Millozzi, Manfredo Manfroi, fino a Massimo Stefanutti, l’attuale presidente del Circolo.
A Treviso, nella prima metà del ‘900, ebbero un ruolo significativo Aldo Nascimben, Mario Botter e Giuseppe Mazzotti, mentre a Verona sono protagonisti dagli anni ’60, Pino Da Gal, Mario Lasalandra, che ha sviluppato ricerche sullo sfondo di ambientazioni desolate, e Enzo e Raffaello Bassotto che hanno legato il loro nome, in quel decennio, alla storia dell’architettura industriale veronese.
Come ha scritto Roberto Mutti, nel suo testo di presentazione del catalogo della mostra, «un’analisi più generale permette di cogliere i tanti aspetti che hanno caratterizzato gli stili dei fotografi qui considerati: si passa dal classico reportage di strada di Toni Del Tin a quello ironico di Libero Dell’Agnese, dallo studio di un’immagine espressivamente più spigolosa cara a Sergio Del Pero ai pregevoli ritratti di Gustavo Millozzi, Giorgio Giacobbi e Pino Guidolotti fino alla ricerca di composizioni marcatamente grafiche in Pino Dal Gal e Mario Bonzuan».
Se Mario De Biasi fu tra i maggiori interpreti dell’epopea che nasceva negli anni ’50 con le riviste illustrate, Luigi Bortoluzzi, detto Borlui, dedicò la sua vita a documentare gli avvenimenti che accadevano nel Veneto.
Seguono nel percorso della mostra i “moderni” fotogiornalisti: Giulio Obici, che fu editorialista e inviato speciale per oltre quarant’anni, Enrico Bossan, pluripremiato per i suoi reportage, Etta Lisa Basaldella, autrice di una forma di riscatto documentario di Venezia, e Mattia Zoppellaro, autore di reportage sociali.
Sul paesaggio e l’ambiente si sono misurati Gianantonio Battistella, Marco Zanta, Cesare Gerolimetto, uno dei più apprezzati fotografi naturalistici internazionali, Roberto Salbitani che ha affrontato la dialettica fra la città e la pubblicità, Luca Campigotto, celebre per le sue vedute notturne della laguna veneta, Mario Vidor, Stefano Zardini, Cristian Guizzo, Loris Menegazzi, Luca Radatti, Gianluca Eulisse, Claude Andreini e Fabiano Avancini.
A progetti di fotografia e grafica si dedicò Diego Birelli, collaborando anche con Luigi Crocenzi e Lanfranco Colombo, quindi lo Studio Camuffo e Giancarlo Dall’Antonia. Renato Barasciutti e il figlio Francesco si sono dedicati al ritratto in studio, come ritrattista è anche Moreno Segafredo mentre Claudio Franzini è fotografo nello staff del Museo Fortuny. Pino Guidolotti aveva stretto una grande amicizia con Ernst Gombrich ed è un autore di caratura internazionale al pari di Paolo Gioli che ha sperimentato il foro stenopeico e l’uso della polaroid. Sperimentatori sono anche Toni Meneguzzo, Bruno Lorini, Renato Begnoni che lega sinergicamente pittura e fotografia, Alberto Bevilacqua autore di quadri narrativi, infine Fabio Bolinelli. Diversamente, Alberto Furlani e Michele Mattiello focalizzano l’attenzione sulla figura umana inserita in contesti di luce e di colore, esplorando i linguaggi del corpo.
La fotografia di strada di Giovanni Umicini, Ferdinando Fasolo, Fatima Abbadi (che si occupa della “quotidianità perduta”, così lei la definisce) coglie momenti di vita di tutti i giorni; importanti e significative anche le opere di Gabriella Veronese, Elena Soloni, Maria Letizia Gabriele, Monia Perissinotto, Mirella La Rosa, Serena Genovese e Ivana Galli con la sua viva iconografia contemporanea.
Se è necessario ispirarsi ai maestri della fotografia per allenare la vista alla comprensione dell’immagine, allora questa mostra è una preziosa occasione per osservare i cambiamenti della nostra storia, per cogliere le sfumature immortalate dall’occhio esperto di coloro che cercano le tracce di un tempo che è stato e mai ritornerà e, infine, per guardare e lasciarsi affascinare dalla fotografia d’autore.
I Fotografi Veneti del ‘900 sarà inaugurata sabato 4 novembre alle ore 16.00 nella Chiesa di San Lorenzo, a San Vito al Tagliamento; sarà visitabile fino al 7 gennaio con i seguenti orari: venerdì mattina su appuntamento, sabato e domenica 10.30/12.30 – 15.30/ 19.00. L’ ingresso è libero.
Il catalogo, pubblicato da Giavedoni editore, include testi di Luigi Perissinotto, docente di Filosofia del Linguaggio all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dell’architetto Gianantonio Battistella, già assistente allo IUAV, del critico Roberto Mutti, curatore della Fototeca 3M, di Nicola Bustreo per La Gondola e Walter Liva, coordinatore del progetto e del CRAF.