Con una focalizzazione interna che coinvolge il lettore fin dalla prima riga, Antonio Varchetta entra nel vivo delle relazioni e dell’introspezione. Quali sono le parole che un padre lascia in eredità al figlio e quando un figlio ricorderà le parole del padre?
Con pari intensità, Mio padre diceva è un racconto che invita a riflettere sulla percezione umana di spazio e tempo; usiamo scientemente il termine percezione per enfatizzare il modo in cui queste due condizioni dell’essere umano possano “variare” a seconda del contesto e dello stato d’animo vissuto.
Buona lettura.
MIO PADRE DICEVA
Lo sento nelle ossa. Lo sento sulla pelle. Soprattutto, lo sento nella testa. IO LO POSSO FARE. Sono sicuro di poterlo fare.
Penserete che sia pazzo. E a stare qua dentro non sarebbe poi così strano. Invece, sono lucido. Distinguo ancora i miraggi dalla realtà, gli obiettivi realizzabili da quelli che sono solo desideri. Vi assicuro che posso superare queste sbarre. Ecco perché estendo il braccio e allungo la gamba, tentando ogni volta di creare una breccia.
Ci provo ormai da tre mesi. Più o meno. Qui, la precisione è un’utopia. Ogni tentativo di misurare il tempo è destinato a fallire. Tenevo un calendario, all’inizio. Usavo una forchetta. L’avevo trovata nel reparto docce. Infilata dietro una piastrella, che sembrava soltanto scheggiata, e invece si poteva staccare con facilità. Qualcuno l’aveva nascosta lì dietro, forse per se stesso, o magari per qualcun altro, di sicuro non per me. È stato un regalo inaspettato, per me. Il risultato di circostanze e concatenazioni. Una volta, mi sarei fottuto il cervello, per ricostruire quel percorso. Ora, non mi interessa più. Non so com’è arrivata e non lo saprò, punto.
Ho fatto i conti con il destino. Ho capito che il Come non è poi così importante. Conta solo il Perché. E posso dirvi che non è stata fortuna. Non succede nulla per caso. La mia condanna, la mia cattura, perfino la mia follia, hanno avuto tutte un Perché. Basta cercare abbastanza e i Perché vengono a galla.
Stavo precipitando in un abisso, diritto verso il fondo. Forse addirittura l’ho toccato quel dannato fondo. Di sicuro, mi ci sono avvicinato così tanto da sentirne il puzzo fetido. Ecco, il mio Perché. Mi serviva una revisione. Proprio così, una revisione. Come quella che facevo alle macchine, quando me le portavano. Prima di tutto questo, naturalmente. Quando vivevo ancora la vita di prima. Così lontana da non riconoscerla più. Così lontana da dubitare che ci sia mai stata. Perché qui dentro, tutto viene ridimensionato. I ricordi si sfaldano, le immagini si offuscano e il significato delle cose si perde.
Ad ogni modo, con il rebbio della forchetta incidevo il muro. Tanti trattini quanti erano i giorni. Ma qui la luce del sole non arriva. Ci sono i neon. Quegli stramaledetti neon, che non si spengono mai, nemmeno quando dormiamo. È bastata un’influenza, e questo segnatempo raffazzonato è andato a puttane. Sono rimasto a letto. Ho saltato qualche pasto. I giorni si sono confusi, come i sogni al suono della sveglia.
Ma io non demordo. Ci provo e riprovo appena posso. Perché, da quando la mia vita è stata compressa e confinata in questa cella, il tempo ha perso il suo potere. Non ci sono più impegni, non ci sono scadenze. Non c’è più alcuna fretta. Devo solo vivere. E devo farlo qua dentro. Per quanto ancora? Come un orologio dimenticato in un cassetto. La sua batteria potrebbe morire a Natale, o raggiungere l’estate. Fate pure le vostre previsioni, dannati indovini.
Così ci provo. Ci provo sempre.
Di solito, alla fine del turno, quando la guardia abbandona il suo tavolino e percorre tutto il corridoio, controllando cella per cella. Al ritorno se ne va in un’altra stanza. Non riesco a vedere dove, ma sento chiudersi una porta. E lì ci rimane per un bel pezzo. Soprattutto se scende a trovarlo un’amica. Non ho visto nemmeno lei. Nonostante i mille tentativi, non riesco neppure a immaginarmela, ma credo lo stesso sia una donna. Il secondino sembra un tipo dai gusti tradizionali. E credo anche che faccia le pulizie al piano di sopra. Ogni volta che scende a trovarlo, si lascia dietro una scia di candeggina che raggiunge la mia cella. Sì, l’olfatto deve essersi sviluppato da quando sono qui. Mi sembra a volte che il mondo sia fatto di odori: muri di odore, soffitti di odore, porte di odore.
Mio padre diceva sempre che volere è potere. E io so che il mio volere è forte. Il mio volere è di infrangere queste sbarre. Lo voglio più di qualsiasi altra cosa. Ogni giorno, appena mi sveglio, ancora seduto sulla branda, osservo la cella, metto a fuoco le sbarre, e mi concentro sul muro al di là. Tre metri. Disterà più o meno tre metri. Quando sono entrato, ve lo giuro su mia madre, erano più di quattro.
Così, estendo il braccio e spingo la gamba oltre le sbarre. Adesso riesco ad arrivare fino allo sterno, e riesco a premere l’inguine sul ferro scabro. Ho rinunciato anche a mangiare per potermi allungare di più, per riuscire ad assottigliarmi. Ogni volta sento il muro più vicino. E, ogni volta, è davvero più vicino. Credetemi. Riuscirò a posare i polpastrelli su quell’intonaco scrostato. Quando mi hanno rinchiuso qua dentro, ho spinto fuori la mano. Volevo sentire se l’aria oltre le sbarre era diversa da quella che respiravo dentro la cella. Poi, ho teso le dita più che potevo. Non mi avvicinavo abbastanza, ma ho capito che potevo farcela.
Toccherò quel maledetto muro, e cambierà ogni cosa. Non ci saranno più ostruzioni, né veti, né condizionamenti. Come il tempo è caduto in frantumi, anche lo spazio si accartoccerà. E sarò libero. Sarò libero come non lo sono mai stato.
Immagine di copertina © Ph. Antonio Varchetta
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