Tibet, un luogo che non ho ancora visitato.
Venezia, una città che amo e che riesco solo a definire come “poesia”.
India, un Paese che sento come seconda casa.
E poi un po’ di Londra e perfino di Mongolia.
Come non perdersi in un romanzo così?
La prima volta che lessi la stesura definitiva di questo libro rimasi incantata dallo stile di scrittura e dalla sua capacità di trasferirmi in quei luoghi, alcuni noti che ricordavo, altri sconosciuti, ma che mi sembrava di vedere veramente, sopraffatta dai colori e dagli odori che, con tanta forza, le pagine evocavano. L’avventura del racconto si intreccia con l’archeologia, l’arte e i miti, per offrire una confidenza nuova con le tradizioni dell’India e del Tibet, ma più ancora con i misteri della vita umana. Eppure mi rimaneva un dubbio: le emozioni personali mi impedivano forse d’essere obiettiva? Così lo feci leggere a qualcun altro, qualcuno che non fosse particolarmente interessato all’Oriente e l’opinione che ricevetti fu la stessa. Perciò dissi a Guido Zanderigo: trova un editore!
Passò quasi un anno poi, come spesso accade nella vita, d’un tratto giunse l’occasione giusta per presentarlo a un esperto. Il giudizio fu identico: la percezione di trovarsi di fronte un’opera fuori dall’ordinario, non solo un romanzo storico ma un lavoro dalle molte sfaccettature, che aveva la rara capacità di schiudere segreti e quotidianità di quei mondi lontani, di andare a toccare le innumerevoli corde delle tradizioni orientali e delle tante domande dell’uomo sul senso dell’esistenza. Pietro D’Amore, l’editore di Castelvecchi, decise immediatamente per la pubblicazione, dandosi un obiettivo assai ambizioso: entro sei mesi il romanzo doveva essere in libreria. C’era solo un dettaglio -non indifferente- richiesto all’autore: il testo doveva essere “ripulito” dalle note (e tante!) che davano profondità a personaggi, ambientazioni storiche e miti, ma allo stesso tempo rallentavano la lettura: le note a piè di pagina, infatti, non si addicono alla narrativa, ma appartengono al mondo della saggistica, cui più spesso l’autore si era dedicato. Ciò ha comportato l’ultima revisione del manoscritto con gli editors Maddalena Cavalleri e Lorenzo Gobbi, per inserirle nel testo, se possibile, e preparare un’appendice per tutte quelle informazioni storiche che puntigliosamente aveva raccolto per contestualizzare ogni singolo elemento del racconto.
È questo il brevissimo e necessario prologo per presentare la figura e il lavoro di Guido Zanderigo. Se per un attimo -solo per un attimo!- avevamo pensato di adottare un tono formale per questa intervista, presto ci siamo resi conto che non era possibile: ci conosciamo da oltre vent’anni, siamo entrambi membri storici della VAIS e abbiamo la comune passione per l’India, il Paese in cui si svolge buona parte del suo romanzo. Abbiamo deciso, allora, di presentare il libro come fosse una delle tante nostre chiacchierate, partendo da trama e ambientazioni, fino a scoprire cosa lo ha spinto a scrivere un romanzo così fuori dal comune e soprattutto cercare di comprendere, oltre i velami della narrazione, cosa in realtà si nasconda sotto il titolo enigmatico “Ciò che vide Manuel Marques”.
L’origine della storia parte assai lontano nel tempo, quando Guido, nelle sue prime letture, si era calato nelle atmosfere evocate dal grande narratore Emilio Salgari -forse, non a caso, anch’egli veronese-, rimanendo avvinto dalla sua capacità di raccontare un Paese lontano che mai visitò. Il fascino di quel mondo esotico, grondante avventura e mistero (e sono proprio queste le parole con cui Fabian Sutter, uno dei principali personaggi del racconto, descrive il proprio approccio all’India), sarebbe rimasto un richiamo costante, prima proprio come viaggiatore, poi come appassionato studioso della cultura dell’India. Infatti, Guido Zanderigo è stato a lungo Cultore di Storia dell’Arte dell’India e del Sud-Est asiatico all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha partecipato a numerose spedizioni archeologiche in India, è autore di articoli e di saggi sull’arte, sui miti e sugli aspetti dottrinali della tradizione indù, tanto da essere uno dei pochi italiani a poter vantare l’edizione indiana, in traduzione inglese, di alcuni dei suoi lavori.
Allora Guido, da dove partiamo?
Me lo domando spesso anch’io. Quando mi chiedono ‘di cosa parla il tuo romanzo?’ fatico a dare una risposta netta. Il fatto è che non posso racchiuderlo in un unico filone. Se dicessi che è una grande avventura sarebbe certamente vero, ma poi è anche un romanzo storico, basato su ricerche e fatti realmente accaduti che hanno contestualizzato il racconto. Forse, più di tutto, è stato il modo per raccontare ai miei figli il perché di questa passione, una scusa per scavare nei nostri dubbi, un tentare di sollevare il velo sui grandi misteri della vita, esplorare la geografia sacra… Di fatto vi ho travasato gran parte delle emozioni e delle esperienze di oltre quarant’anni di India. E ci ho impiegato tredici anni a scriverlo: sai quanto possono cambiare le nostre domande in tredici anni? Così, all’indiana, ho preferito stratificare piuttosto che sostituire.
Ecco, già qui ti fermo, perché mi hai già suggerito un paio di domande: 13 anni per scrivere 13 capitoli, o meglio 12 +1: hanno un significato questi numeri? E che effetto produce la stratificazione piuttosto che la sostituzione?
Hai ragione. Il romanzo vuole essere anche un racconto evocativo -mi ero dimenticato di aggiungerlo all’elenco di prima- perciò questo particolare simbolismo numerico ha necessariamente un significato. Se i primi dodici capitoli richiamano immediatamente i dodici mesi e quindi il completamento di un ciclo, il ciclo annuale, quel “più uno” indica la possibilità di superare questa prospettiva, di rompere il susseguirsi ininterrotto dei cicli, di guardare oltre. Un po’ come avviene in uno dei più noti rituali del mondo vedico, quando il Re in procinto di divenire cakravartin, termine sanscrito per indicare il Sovrano Universale, sale sul palo sacrificale innalzandosi al di là del cerchio che sta alla sua sommità: solo superando questo anello, che rappresenta la cintura delle dodici stazioni zodiacali, il re raggiungerà il cielo delle stelle fisse. Ma ciò che mi affascina è che, come tutti i riferimenti simbolici, sia possibile trovare lo stesso riscontro nelle tradizioni d’Occidente, dove la figura di Cristo è il “più uno”, il centro dei dodici Apostoli, il Sovrano che sperimentò su di sé il più tremendo dei pali sacrificali. Ma ci stiamo infilando in un discorso che rischia di portare assai lontano…
L’altra cosa che mi hai chiesto riguarda l’attitudine a stratificare piuttosto che sostituire… come posso rispondere? Oltre a offrirci un incredibile tesoro di conoscenze che si sono sommate nei millenni una sull’altra, senza sentire l’esigenza tutta occidentale -o, a ben guardare, monoteista- di eliminare ciò che era venuto prima, l’India ci insegna che la stessa stratificazione avviene anche nel microcosmo individuale che è l’uomo e ogni conoscenza, ogni realizzazione costituisce perciò la base necessaria per innalzarsi sul gradino successivo… Sempre che si vogliano vedere le cose da un punto di vista tantrico, perché, come ben sai, l’intuizione istantanea offerta dalle vette metafisiche del Vedānta non necessita di alcuna pedissequa scalinata. Come dire che la danza di Śiva Naṭarāja, cui tutti e due abbiamo dedicato degli studi, ci insegna che in realtà nulla si trasforma e l’apparente successioni di mondi e universi evocata la danza del Dio, è tale solo fino al momento in cui si riconosce il vero Sé.
Allora è a questo genere di cose che ti riferisci con quell’inciso “indicazioni tradizionali in forma di novella” che si trova sotto il titolo del romanzo, ma solo in seconda pagina?
Sì, in qualche modo direi che è così, ma non si tratta semplicemente di una specie di manuale di simbolismo comparato oriente-occidente: l’intendimento era quello di far balenare la possibilità di più livelli di lettura. Anche la scelta di metterlo in seconda pagina è come un avviso, ancorché tardivo, che il terreno può farsi scivoloso, che le cose possono essere ben diverse -o meglio, stare ben oltre- a come si presentano. D’altra parte si narra di un viaggio che ha come meta la liberazione, mokṣa, e non la salvezza. L’uscita dal ciclo, non una strada per giungere altrove.
Queste parole mi fanno venire in mente lo Śaṅkarācārya di Śringeri, una delle voci più autorevoli della tradizione indù, di cui parli in uno dei punti cruciali della storia. Oltre a creare una trama avvincente in cui si insinuano paesaggi, cibi e opere d’arte di un mondo straordinario, questo romanzo ti ha dato la possibilità di raccontare al pubblico un’India nascosta… come è possibile avvicinarla?
Forse questa è la domanda più difficile. Il fatto è che “scuole” e “maestri” in cui possiamo incappare qui in Occidente, spesso –per non dire quasi sempre– sono autoreferenziali, dei maestri ‘fai da te’, non hanno cioè un parampara, una catena ininterrotta che ne garantisca autenticità e autorevolezza, come accade per le scuole tradizionali tra cui quella degli Śaṅkarācārya. Per fortuna ci sono vari campanelli d’allarme: uno è quando si autoproclamano ‘illuminati’ se non addirittura avatāra, cioè discese del divino in terra. Il vero maestro invece, è sempre schivo, non smania dalla voglia di caricarsi sulle spalle la responsabilità di nuovi discepoli. Un altro è il momento in cui questi millantatori chiedono soldi in cambio dei loro insegnamenti o, peggio, di pseudo-iniziazioni; in India, l’offerta al guru si limita a fiori, miele, frutta secca o poco altro. Perciò ognuno deve a lungo cercare prima di trovare la propria strada.
Tornando ai personaggi: quanto “veri” sono? Ognuno di loro è un messaggero, a partire proprio da Manuel Marques che, in qualche modo, è il motore immobile di tutta la narrazione, sei d’accordo?
Misurarmi con i personaggi è stata una delle cose più stimolanti del libro. Alcuni, come emerge dalla nota storica proposta in coda al romanzo, sono il risultato di un puntiglioso lavoro di ricerca… e Manuel Marques è uno di questi: uno dei primi due gesuiti a entrare in Tibet nella prima metà del Seicento e l’ultimo che vi rimase. Proprio questo dettaglio mi ha colpito profondamente: lo hanno -per così dire- lasciato indietro, poi le porte sono state sigillate e di lui non si è saputo più nulla. Neanche più tardi, qualcuno è tornato per capire che fine avesse fatto. Perciò mi è piaciuto immaginare che fosse fuggito, che si fosse sottratto a questo oblio.
E gli altri?
Altri personaggi sono invece frutto di fantasia, magari mettendo insieme caratteristiche di persone che ho veramente incontrato nel corso della vita. Questo è stato davvero divertente, prendere un pezzo di qua e uno di là e dare forma a qualcosa di nuovo… così in alcuni di loro potrebbe essere finito anche qualcosa di me. Non per niente quando l’editore Pietro d’Amore mi ha conosciuto, ha confessato che si aspettava che io fossi un nobile veneziano intriso di studi umanistici…
E noi sappiamo che ti sei ispirato a qualcun altro!
Proprio così! Immagina che delusione quando si è trovato di fronte uno di quei veneti che sono quasi lombardi e per giunta ingegnere: nessun fascino da decadente patrizio di laguna. Per fortuna il romanzo gli era proprio piaciuto perciò, nonostante tutto, ha deciso di pubblicarlo lo stesso.
Già! È stata una fortuna anche per noi lettori.
Sono molti i luoghi di cui parli e ne fai una descrizione così minuziosa da far pensare che tu li abbia visti tutti…un altro effetto salgariano oppure sono luoghi in cui hai viaggiato veramente?
Sì, a parte Guge dove avrei dovuto andare con te un paio d’anni fa! (ridiamo al ricordo di un viaggio sfumato). Sono tutti posti che ho potuto visitare di persona. Anche se, nei miei ricordi, i momenti più belli non sono legati a luoghi specifici ma alle interminabili ore dei trasferimenti. I viaggi in macchina mi cullavano rollando e beccheggiando su strade sgangherate e l’India scorreva lenta dai finestrini. Era questa l’essenza della scoperta: lasciarsi andare… e spero si sia riflessa nelle pagine del libro. L’idea della storia è nata proprio da uno di questi viaggi, nel 2001, quando con un gruppo di ricerca della VAIS siamo stati per la prima volta nello stato indiano dell’Arunachal Pradesh, all’estremo nord-est dell’India. È stato un viaggio folgorante, un calarsi in un’India salgariana: templi e sacrifici, sciamani e oracoli, e soprattutto l’emergere in superficie di una geografia sacra che faceva balenare l’esistenza di punti di passaggio sottili, beyul o tīrtha a seconda che li vogliamo chiamare alla tibetana o all’indiana. Da allora, anche se è una delle regioni più remote -e certo meno frequentate da stranieri- in quell’area del subcontinente indiano siamo tornati ben quattro volte, e ogni volta è stato come svelare un nuovo mistero.
Infatti tutto sembra confluire in quell’angolo di mondo alla fine della storia.
Proprio così! È stato abbastanza complesso riportare a un unico momento e a un unico punto tutto l’intreccio della narrazione, i percorsi dei diversi personaggi. Ma d’altra parte era una fatica necessaria. È il senso stesso della storia: passare dalla molteplicità all’unità prima di trascendere anche questa.
Sì, lo esprimi bene alla fine del dodicesimo capitolo, posso leggere un pezzettino?
Sì, certo.
Era come una congiunzione. V’erano momenti particolari in cui tutto si compiva simultaneamente. La Dea si apriva, mettendo sul piatto del mondo l’intero ventaglio delle possibilità. Un banchetto apparecchiato per il saṅgha delle Tradizioni. E a quella mensa accorreva anche il traditore, colui che aveva seguito a rovescio il cammino.
«Luce e ombra», mormorò il Conte ammaliato dall’attimo che avrebbe riassunto tutta una vita.
«Doveva accadere», disse lo Svāmi. «Siamo alla soglia d’una terra sacra. Questa è Kāśī e solo Kāśī passa».
Sì, era la stretta finale. Ricordò la visione di battaglia avuta a Venezia. Era questa. Era qui, ora.
«Solo Kāśī passa».
Chi sarebbe stato con Kāśī? Chi avrebbe visto la nuova alba, il seme della nuova Gerusalemme, il riflesso di Luz, Śāmbalā, Paradesha, sul prossimo ciclo? Ma quello sarebbe venuto poi. Questo sarebbe stato solo un serrare le fila in attesa di quel giorno.
«Tīrtha!», pensò Cavalli. Un luogo dove si compiva il destino.
E, come spesso dice qualche personaggio, «Sab sahi he» cioè «è tutto vero».
Però per arrivare alla fine, all’epilogo, al dodici più uno c’è ancora un passo da fare.
Ma non possiamo svelare anche questo, altrimenti nessuno più leggerà il libro!
Hai ragione. Chissà se abbiamo suscitato la curiosità dei lettori?
Spero proprio di sì. Piuttosto…ci sarà un seguito? Alcuni personaggi sono pronti a ripartire per un altro viaggio, secondo me.
Come direbbero gli indiani «possible!».
P.S. le immagini che corredano l’articolo evocano alcuni luoghi… a voi ritrovarli nel viaggio della vostra lettura!