Ci sono numerose parole chiave nel libro Manuale di disobbedienza digitale, edito da Castelvecchi, di Nicola Zamperini: algoritmo, machine learning, big data, techno corporation e outsourcing cognitivo; ma anche disumanizzazione, scippo generalizzato, singolarità, quidditas, consapevolezza e memoria. Cosa sta accadendo in questo nuovo mondo digitale? Da una parte c’è la spinta verso una quotidianità gestita dalle macchine per portare l’uomo al minimo sforzo, dall’altra c’è la volontà di depauperizzare l’essere umano di quanto gli è più peculiare: la capacità di produrre pensieri liberi, autonomi e critici.
Zamperini accompagna il lettore in un’analisi precisa e ricca di note bibliografiche, dalle origini del mondo digitale, “gli anni Settanta del Novecento”, fino ai giorni nostri e per una prossimità di qualche decennio, opinione già parzialmente espressa in Prossimi umani di Francesco de Filippo e Maria Frega, 13 interviste a scienziati italiani sul futuro tra vent’anni. Oltre che la dettagliata ricerca per comprendere come e dove “tutto ebbe inizio”, questo libro pone l’attenzione in un’area vastissima che racchiudiamo sotto la voce comunicazione. Lo scrittore ci aiuta a comprendere il modo in cui offriamo informazioni: continuamente, costantemente e inconsapevolmente. Nonostante ripetiamo a noi stessi che siamo coscienti e responsabili di ogni parola che scriviamo nei blog e nei vari social network, siamo volutamente ciechi di fronte a tutte le altre notizie che di noi stessi inseriamo nel web, ad esempio ogni qual volta che cerchiamo il significato di una parola, che digitiamo la ricerca per un’ipotesi di vacanza o scarichiamo un’applicazione che ci consentirà di “risparmiare tempo”. Ciò che accade, invece, è che quell’ipotetico tempo risparmiato ci sarà nuovamente tolto per aver fornito indicazioni e preferenze, che si trasformano in dati e questi dati si rigenerano in nuovi prodotti digitali che qualche macchina invierà a uno dei nostri account.
Cosa ci propone, dunque, Nicola Zamperini con l’invito alla disobbedienza digitale? Ben lungi dall’escludere l’uomo del XXI secolo dalla realtà in cui vive, forse disilluso dal sogno utopico di “un mondo migliore” e scettico quanto basta per credere che si possa evitare la quotidiana “contaminazione chimica” per contatto con i tentacoli delle techno corporation che gestiscono il potere, lo scrittore offre numerosi spunti di riflessione per comprendere, ciascuno a modo proprio, come rallentare l’inevitabile processo di datizzazione a cui siamo sottoposti. Ci sono due atteggiamenti fondamentali che Zamperini esorta ad adottare, uno stimolo che ciascuno può ritrovare in sé e giocare per sé, e sono l’utilizzo e la valorizzazione di creatività e improvvisazione, che diventano ingredienti essenziali per la sopravvivenza di un’identità che rischia altrimenti di essere privata di tutto. Allora sembra quasi un richiamo, non una fuga nel passato, a quel fertile periodo del secolo scorso, quando il jazz veniva suonato nella 52a strada e così, entrando virtualmente al Pod & Jerry’s, possiamo ascoltare Willie The Lione Smith che accompagna una giovanissima Billy Holiday nella sua All of me, e alcune parole come you took the best, so why not take the rest ci suonerebbero oggi come un campanello d’allarme: se you non fosse un uomo ma un sistema, asteniamoci dal regalare il meglio, altrimenti gli daremo tutto.
Lo scorso gennaio, in occasione della morte della scrittrice statunitense Ursula K. Le Guin, un articolo riportò queste sue parole: «ogni forma di potere umano può essere cambiata e sovvertita dall’essere umano stesso», diversamente non rimarrebbe che la distopia del presente. Riflessione di una donna che ha scritto libri di fantascienza per dare una lettura della realtà ma che collima con il messaggio ultimo di Zamperini che mostra la realtà rischiando di essere considerato fantascientifico.
INTERVISTA
Manuale di disobbedienza digitale è un libro “misto”, un saggio con brevi racconti per contestualizzare le argomentazioni, offre citazioni per chi è interessato a un approfondimento sul mondo digitale, richiama l’attenzione su testi e autori della letteratura moderna e classica. Ci spieghi perché hai scelto di dividere il libro in tre sezioni e di chiamarlo manuale?
La divisione del libro in tre parti è venuta fuori scrivendolo, all’inizio non avevo idea che sarebbe andata così. In ogni caso l’esigenza di dividere in tre il racconto deriva anche dal lato del prisma con cui provo a inquadrare il nostro rapporto con le macchine. Nella prima parte mi concentro sulla genesi culturale delle techno-corporation e sulla relazione tra queste e gli Stati nazionali. Nella seconda penso a come stanno cambiando alcuni nostri modi di essere, alcune qualità essenziali dell’essere umano al contatto con gli algoritmi e nella terza, infine, propongo qualche via d’uscita. Via d’uscita per lo più ideale. L’idea di chiamare il libro Manuale deriva proprio da questa ultima porzione del testo. E i racconti – in questo quadro – sono una mia personale libera uscita: il cammino attraverso un sentiero narrativo che amo e desidero percorrere, e che conta molto nella genesi del testo, anche se si tratta di un sentiero davvero esiguo rispetto a tutto il resto.
Parli di scippo generalizzato, siamo donatori inconsapevoli di dati perché “nessuno sembra interessarsi al fatto che vendiamo parti di noi”: ci avvaliamo del detto “occhio non vede, cuore non duole”?
Questo è sicuro. Quando scarichiamo una copia dei dati che un social network possiede su di noi, quando accediamo alla memoria dei nostri rapporti con un motore di ricerca ne rimaniamo turbati. Purtroppo stiamo facendo la fine di Antonio nella relazione con Shylock nel Mercante di Venezia di Shakespeare. Quando ci accorgeremo che stiamo cedendo una libbra della nostra carne a mercanti, avidi rispetto al valore delle nostre emozioni e delle nostre conoscenze, sarà troppo tardi.
Puoi riassumere brevemente il concetto di big data e l’importanza che ha per le techno-corporation?
I big data sono un’enorme quantità di dati relativa a un determinato ambito, quantità di dati che viene analizzata, stoccata e processata da computer molto potenti. Si tratta di quantità così grandi che non c’è bisogno di analizzare campioni statistici, quei dati rappresentano la totalità dei dati disponibili in un determinato settore. Le techno-corporation si nutrono di queste enormi quantità di dati che servono loro a predire le nostre scelte di consumo. Se il 90% dei clienti di un negozio online compra un libro e associa a quel libro l’acquisto di certi auricolari per smartphone, l’accoppiata sarà proposta a tutti i potenziali acquirenti dell’uno o degli altri. Questo processo si chiama correlazione e ha come fine la previsione, tra le altre, delle nostre scelte di consumo.
Una delle forme d’illusione su cui ti sei soffermato è il binomio solitudine-connessione, riflessione che accompagna, sottotraccia, molti capitoli: perché è così facile cadere nella rete?
Connessione è una parola che evoca la relazione ma non la sottintende, non è necessaria una vera relazione per essere connessi. Connettersi è un modo per entrare in contatto con l’altro, ma non esaurisce lo spettro delle relazioni possibili tra le persone. Da sempre il web è uno spazio in cui trovare antidoti veri o presunti alla propria solitudine, solitudine che tuttavia non nasce e nemmeno si esaurisce nella rete.
Possiamo dire che Burning Man non è più solo uno spazio fisico ma piuttosto uno spazio mentale, perché chi ne ha accesso cambia radicalmente prospettiva di fronte al mondo virtuale?
Di sicuro lo è stato. Oggi forse è più uno dei tanti festival di successo e alla moda che si fanno in giro per il mondo, e nell’Ovest degli Stati Uniti. Di sicuro quell’abito mentale è alla base della cultura aziendale di molte techno-corporation. Credo sia uno spazio culturale americano e molto distante dalla nostra, europea, concezione delle cose; così come credo che la relazione con la tecnologia che innerva tutte le grandi società tecnologiche abbia un elemento fideistico che affonda parte delle proprie radici nell’esperienza di Burning Man.
Di “ciò che stiamo perdendo”, qual è per te la perdita più pericolosa?
La memoria e il suo fratello gemello, l’oblio. Possiamo ricordare quasi tutto, possiamo accedere al nostro oracolo Google e chiedergli di ricordare per noi qualunque cosa. Allo stesso tempo l’oracolo conserva nelle sue viscere e ricorda tutte le nostre relazioni con il motore di ricerca, ogni domanda e ogni video, ogni amnesia e ogni traduzione. Dall’altro lato abbiamo il social network che ci propone ricordi a suo piacimento, anche i ricordi che vorremmo dimenticare. Un simile suggeritore avrebbe proposto al giovane Marcel Proust il ricordo meccanico del thé e delle Madeleine. E di fronte a questa proposta siamo davvero sicuri che Proust avrebbe scritto lo stesso romanzo?
Ci sono due parole chiave che potrebbero mantenere la distanza tra uomo e macchina: consapevolezza e improvvisazione. Consapevolezza rispetto a cosa?
Consapevolezza che l’utilizzo gratuito di alcuni servizi, estremamente comodi per carità, comporta la cessione delle nostre conoscenze, delle nostre emozioni e paure, dei desideri e in definitiva delle nostra parole a una macchina. Confessiamo tutto questo a un robot “molto intelligente” che impara giorno dopo giorno. Nessuno ci impedisce di procedere lungo questa strada e nessuno ci costringe e a percorrerla, ma dobbiamo metterci bene in mente che da qualche parte, in un server nascosto in un qualche nord del mondo, sono conservati tutti i nostri sentimenti per un utilizzo commerciale.
Mentre qual è l’utilità dell’improvvisazione?
C’è una frase molto bella della serie tv Westworld che cito anche nel libro, «l’evoluzione ha costretto la vita senziente di questo pianeta, nella sua totalità, ad usare un unico strumento, l’errore». L’errore, l’improvvisazione, la follia, l’imprevedibilità ci rendono esseri umani. E fino ad oggi le macchine, che prevedono molto, non riescono proprio a prevedere le nostre svolte improvvise. Sarà una soddisfazione di poco conto ma per me assume grande, e vitale, importanza.
Chiudi con un “ennalogo” che è un “ecatalogo”, lista di 100 regole-suggerimenti di disobbedienza digitale, ed esorti i lettori a continuarlo: il vademecum è l’elenco o l’esortazione?
Entrambe le cose. Le mie sono proposte ideali, alcune anche inutili, spero che i lettori ne facciano di proprie. Inventino un loro personale ennalogo per imbrogliare le macchine. Per ricordarsi che non c’è bisogno di una macchina per non dimenticare e anche per ricordarsi che alle volte è meglio dimenticare.
In copertina: Nowhere man please listen! You don’t know what you’re missing © Raffaello Bassotto Archivio (il nome della foto è una frase di John Lennon)