C’è un limite biologico alla longevità umana?

Nuovi studi sulla longevità basati su dati statistici: l’età avanza, ma non il rischio di mortalità. Lo studio demografico, condotto dai ricercatori della Sapienza, indica che dopo i 105 anni il rischio di mortalità non aumenta ma rimane costante. I sorprendenti risultati della ricerca, pubblicati sulla rivista Science, favoriscono il progresso degli approfondimenti sulle teorie evolutive della senescenza.

Le domande poste come origine del progetto scientifico sono semplici: c’è un limite biologico alla longevità umana? Come cambia il rischio di morire con l’avanzare dell’età?

Per dare delle risposte, i ricercatori del Dipartimento di Scienze statistiche della Sapienza, in collaborazione con l’ISTAT e le università Roma Tre, Berkeley e Southern Denmark, hanno condotto uno studio sui semi-supercentenari italiani (ovvero coloro che non hanno ancora raggiunto i 110 anni di età, ma superano i 105), con l’obiettivo di stimarne con esattezza il rischio di mortalità. I risultati della ricerca, pubblicati sulla rivista Science, hanno sorprendentemente indicato, per coloro che hanno superato i 105 anni, il raggiungimento di un livello costante del rischio di mortalità.

Il team di ricercatori ha stimato per la prima volta la mortalità in età avanzata, con una accuratezza e precisione che finora non era stata possibile. “I dati studiati, accuratamente documentati –spiega Elisabetta Barbi della Sapienza– portano a concludere che la curva di mortalità cresce esponenzialmente fino all’età di 80 anni circa, ma poi decelera fino a raggiungere un plateau, ovvero un andamento costante, dopo i 105 anni”.

Lo studio, inoltre, ha evidenziato come il rischio di mortalità diminuisca, seppur lievemente, nel tempo anche a queste età estreme. “Se esiste un limite alla longevità –commenta la ricercatrice– questo non è stato ancora raggiunto”.

La mancanza di dati affidabili su questi “pionieri della longevità” ha alimentato, fino a oggi, un controverso dibattito fra gli scienziati di tutto il mondo. La comunità scientifica infatti, si divide tra chi sostiene che la curva dei rischi di mortalità continui ad aumentare esponenzialmente con l’età, e chi invece argomenta che essa deceleri e raggiunga un livello costante -definito, appunto, plateau- alle età più elevate, mimando il comportamento di altre specie animali.

La scoperta del plateau è cruciale per la comprensione dei meccanismi alla base della senescenza e della longevità umana. “Per gli studiosi del campo –conclude la Prof.ssa Barbi– rappresenta una prima e importante conferma del ruolo giocato dalla sopravvivenza selettiva e fornisce la necessaria chiarezza empirica per il progresso degli studi che riguardano le teorie evolutive sulla senescenza”.

Al di là del dato statistico, non sono state ancora completamente chiarite le cause specifiche che stanno alla base del fenomeno dell’invecchiamento e al contempo determinano la capacità fisiologica di alcuni esseri umani di sopravvivere oltre il limite ritenuto medio. Le ricerche degli ultimi anni si sono focalizzate in particolare, sul ruolo giocato da fattori endogeni, cioè presenti nell’individuo, per capire come e se è possibile rallentare l’invecchiamento delle cellule.

Secondo la teoria genica, i geni che compongono il nostro DNA racchiudono in sè alcune caratteristiche che predispongono verso la longevità. Studi sui centenari hanno permesso infatti di identificare alcuni geni promotori della longevità, posti in specifiche posizioni del cromosoma. Questo porta a ipotizzare che, a parità di condizioni ambientali e socio-economiche, l’influenza maggiore sulla longevità sia proprio a carico dei fattori genetici. Un diverso punto di vista è invece trattato dalla controversa teoria evoluzionistica, formulata per la prima volta negli anni ’40, secondo cui l’invecchiamento sarebbe dovuto a una riduzione delle capacità di selezione naturale.

Alla fine degli anni ’50 sono state formulate due teorie ancora oggi accreditate: la teoria dei radicali liberi e quella della senescenza cellulare. Secondo la prima, lo stress ossidativo sarebbe alla base dell’invecchiamento poiché durante le reazioni di ossidazione che avvengono fisiologicamente nell’organismo, vengono prodotte delle sostanze molto reattive, i radicali liberi, in grado di danneggiare le cellule e anche il DNA. La seconda sostiene invece che la capacità di replicarsi delle cellule umane è limitata, quindi con il passare del tempo i tessuti si rigenerano e riparano meno efficacemente e quindi invecchiano.

Recentemente la teoria neuroendocrina sostiene che l’invecchiamento è la conseguenza della perdita dell’equilibrio nervoso ed ormonale (neuroendocrino-senescenza) mentre la teoria immunitaria ipotizza che l’invecchiamento sarebbe sostenuto da uno squilibrio del sistema immunitario (immuno-senescenza). Ne consegue che un equilibrio ormonale o del sistema immunitario, sia a livello centrale sia inerente i rapporti tra i vari sistemi, sarebbe alla base della longevità.

In conclusione, ciò che determina la longevità è ancora oggetto di ricerca; si osserva che l’invecchiamento è un processo multifattoriale molto complesso, che ognuna delle teorie sopra citate ha un fondamento di validità ma, allo scopo di studiare una strategia per rallentarne o contrastarne il decorso, bisogna agire contemporaneamente su più fronti, non solo scientifici, anche di carattere socio-ambientale, intervenendo sugli stili di vita che possono favorire la salute fisica e intellettuale.

Alcune considerazioni sul futuro nel libro PROSSIMI UMANI. Riflessioni tra fisica e filosofia sul mondo tra vent’anni, di Francesco De Filippo e Maria Frega (2017, Giunti Editore).

Immagine di copertina © Ph. Henri Zerdoun

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