Le cose rotonde | Racconto di Andrea Rigato

Le cose rotonde © Ph. Archivio Fotografico Raffaello Bassotto

MoNTagnA e MoNgoLFierA sono parole che contengono caratteri dai tratti spigolosi eppure diventano le protagoniste della rotondità di questo racconto, come fosse un ossimoro. Ciò è possibile grazie alla sensibilità della scrittura di Andrea Rigato che trasforma una storia in una grande allegoria, raccontando la vita in un piano squisitamente simbolico, con un accorto uso di figure retoriche che supera la semplice esposizione dei fatti.

La metafora della montagna e l’iperbole della mongolfiera esaltano la realtà e ne amplificano l’effetto, a uso proprio del singolo lettore, regalando una riflessione sul circolare fluire dell’esistenza.

Buona lettura.

LE COSE ROTONDE

Ogni anno quando arriva settembre io prendo e vado in montagna da solo.

Qualcuno si chiede perché.

Vado a imparare il respiro dei boschi. Vado a dare il buongiorno alle crode. Vado in cerca di funghi e parole.
Con gli scarponi addosso il passo diventa leggero, potresti quasi staccarti da terra. A parte una mongolfiera, niente fa galleggiare lieve nell’aria quanto un paio di scarponi.

Una mongolfiera. Alzi la mano chi non ne vorrebbe avere una.

L’anno scorso di questi tempi io infatti ce l’avevo: una mongolfiera rossa. Era bellissima. Provate pure a chiudere gli occhi e immaginarne una, ma la mia era la più bella mongolfiera rossa di sempre.

Era da mesi che fantasticavo di un viaggio con lei, una cosa come il giro del mondo. Sarebbe stato il viaggio più avvincente della mia vita. In quella mongolfiera ormai avevo messo di tutto, ci avevo caricato i miei sogni e le mie parole. Troppo forse, una zavorra troppo pesante.

Lei guardava quella roba ammassarsi ogni giorno dentro al cestello. Non era convinta, scuoteva il capo. Aveva solo voglia di partire in fretta. Subito. Leggera, senza tanti bagagli. Le mongolfiere sono fatte così. Ad aspettare me, che non mi decidevo, soffriva ogni giorno di più, si vedeva benissimo.

Così un giorno ho capito. Ho deciso.

Ho fatto la cosa più folle ed assurda, sebbene di una logica cruda e feroce.

L’ho fatta andare. Ho sganciato i cavi apposta.

Volevo vederla libera. Volevo vederla andare. Le mongolfiere amano volare, non bisogna trattenerle. Le mongolfiere hanno bisogno del cielo.

Nel momento in cui finalmente iniziava ad alzarsi e io restavo giù, mi ha guardato. E quello sguardo non potrò mai raccontarlo a nessuno.

In un attimo è volato giù tutto: le scarpe, la giacca, le parole, i sogni. Le cose mi piovevano in testa come una grandinata. Io restavo inchiodato lì sotto, con gli occhi aggrappati alla terra. Come se bastasse rimanere con gli occhi abbassati per non veder volar via tutto quanto.

Certe azioni irreversibili commuovono. Una nascita, una morte, un inizio, una fine. Hanno dentro la bellezza struggente delle cose che cambiano per sempre. Di un dopo che non sarà più come il prima. Se tu molli il cavo di una mongolfiera devi accettare il fatto che lei da te non tornerà più. Puoi sognartela a ogni ora del giorno, immaginare il suo volo ogni notte, sperare di svegliarti al mattino e vederla spuntare tra i rami dei tigli in giardino. Ma sai che invece non tornerà più.

Dimenticavo una cosa importante del mio andare in montagna. La fantastica acqua gelata dei torrenti.

L’altro giorno me ne stavo seduto ai bordi di un torrente, a far cic-ciac coi piedi nudi. Ero lì, coi piedi a mollo e gli occhi inzuppati di cielo. In montagna a settembre l’azzurro del cielo certe volte sembra vernice.

Al centro di quella vernice è spuntato un puntino. Dondolava proprio sopra di me.

Era lei. Sembrava mi stesse guardando da un po’.

Non incrociavo più quello sguardo da mesi. Ho sentito qualcosa sciogliersi dentro, col rumore che fanno i ghiacciai quando è ora di primavera.

Da lontano ho intravisto un sorriso. L’aria di montagna è così: ti fa vedere anche le cose distanti. Ti fa cogliere tutti i dettagli, le sfumature.

Sì, sorrideva. Con quell’espressione che hanno le mongolfiere quando sono felici.

È passata apposta per quello. Per dirmi che lei quel giro del mondo l’ha fatto. Che ha visto albe e mari e autostrade e concerti e isole e stagioni e rondini in volo, e lune piene sopra a città.

Che ha scherzato col vento, che ha parlato alle nuvole. Che ha pianto e riso e brindato da sola. Che quel giro ormai è finito. Che adesso sta bene. Che è già ripartita, perché con le cose rotonde quando arrivi alla fine sei di nuovo all’inizio.

È venuta per dirmelo, perché io lo sapessi. Per sciogliere un po’ di quel ghiaccio.

Così adesso potrò finalmente tornare a essere anch’io come lei.

Felice.

Di una stupida tristissima gioia.

Perché non esiste niente di più irreversibile e commovente.

No, niente di più entusiasmante e irrimediabile e lancinante che regalare a qualcuno la libertà.

Per vederlo volare felice anche senza di te.

Immagine di copertina © Ph. Raffaello Bassotto

Un altro racconto di Andrea Rigato è Lacrime di terra.

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