La parte per il tutto | Racconto di Annarosa Maria Tonin

Una parte o tutto? Quesito che riporta al dubbio amletico e che sottende ogni frase del racconto di Annarosa Tonin.

Ciò che nasce per caso può giungere a sconvolgere una vita, ma un’intera vita si lascerà capovolgere dal caso? La parte per il tutto è un titolo emblematico, valido per ogni scelta che si è obbligati a fare dopo che, a lungo, si è procrastinata la decisione. Questo racconto ci accompagna a quel fatidico momento, quel bivio da prendere e non c’è altra possibilità se non la parte per il tutto o il tutto rinunciando a una parte.

Buona lettura!

La parte per il tutto

Da otto mesi la faccenda di Relia era una burla, una di quelle che tanto lo divertivano e costellavano le sue giornate romane con l’amico oste. E ora, il tracollo. Almeno così Mario lo viveva. Un tracollo tutto suo, solo suo. La totalità lo aveva seguito in Sicilia, la sua terra, tra i suoi cavalli, divenuti ormai una macchia indistinta. La totalità lo dilaniava anche quando pensava di star bene. Senza Roma il tracollo non sarebbe arrivato; eppure, Mario non se l’era andato a cercare. Era lui che continuava a bussare alla sua porta!

Da otto mesi non si confidava più con nessuno. E il tracollo veniva tutto da lì. La totalità del suo vivere aveva concluso che degli altri non si poteva fidare. Nemmeno di Edoardo, il suo amico oste?

Mario trascorreva la giornata siciliana aggrappato ai suoi cavalli, ma non li chiamava più per nome, uno valeva l’altro, e loro tentavano di scrollarselo di dosso per dargli lo scossone che serviva. Avevano il polso reale della situazione e Mario, nonostante tutto, lo sapeva. Lo mandavano via perché via da loro doveva andare. Doveva tornare a Roma dalla figlia. Con la sua totalità.

Relia era cameriera al piano nell’albergo dove Mario e Sandra, sua moglie, erano soliti alloggiare per non dare incomodo a Maria, arrivata a Roma per studiare Architettura e rimasta nella capitale a fare tutt’altro. A un certo punto, era successo che Mario si fosse presentato all’albergo da solo.

Mario e Relia si vedevano da lei, che viveva in un quartiere differente e di ciò lui le era grato, anche perché poteva testare l’efficienza del trasporto urbano in un’altra zona della città.

L’ufficiale di un tempo e di un tempo anche allevatore di cavalli era tornato a Roma per la decima volta in otto mesi. Seduto sull’autobus di linea, ripassava a memoria la storia che avrebbe raccontato all’amico oste, non prima di avergli chiesto un pranzo indimenticabile per superare, o tentare di superare, l’affanno della clandestinità, che per un uomo di quasi settant’anni, per giunta cardiopatico, era già un affare rilevante.

Nel corso degli otto mesi si era dimenticato della moglie, non solo grazie a Relia. Al maneggio in Sicilia, infatti, Sandra non si vedeva da un pezzo e di lei arrivavano parti di vita in varie parti del mondo. E Maria? Lo salutava al telefono a intervalli regolari. Da altre parti del mondo.

Le dieci del mattino di un venerdì di settembre e dell’efficienza o meno del trasporto urbano ormai Mario aveva perso la cognizione. Di ogni donna di origine straniera fra i quarantacinque e i cinquant’anni, che vedeva fuori dal finestrino, si chiedeva se la vita prima dell’Italia era stata così dura come quella di Relia, vedova e già nonna, che aveva scelto uno come lui, quando poteva avere chi voleva. Lei dagli uomini voleva solo e soltanto rispetto. E vicinanza. E costanza. E verità. La totalità di Relia.

Mario l’aveva conosciuta in un corridoio di accesso alle stanze del secondo piano dell’albergo, proprio nel punto più stretto, in cui, se si passava in due e c’erano valigie o aspirapolvere o carrelli con lenzuola e asciugamani puliti, ci si sfiorava senza volerlo.

Relia era alta, statuaria, non avrebbe dovuto stare lì con la divisa da cameriera ai piani. Questo aveva pensato l’ufficiale in congedo, vedendola avvicinarsi. Da gentiluomo aveva lasciato proseguire Sandra. Era rimasto solo con Relia. Mario e Relia si erano sfiorati lentamente. Più che altro, a lui era parsa lenta quella totalità. Forse, era stata la sua prima volta alle prese con la totalità. Si era sentito vivere e da lì si era scoperto meno gentiluomo, nel senso che, il giorno dopo, nel momento in cui l’aveva vista servire la colazione, vestita di un’altra divisa, non era riuscito a trattenersi dal dirle quanto apparisse diversa. Nei giorni seguenti, aveva continuato a non essere un gentiluomo, facendo colazione molto dopo la moglie, che aveva fretta di andarsene “a vivere fuori”.

Mario non riprendeva possesso del suo essere gentiluomo nemmeno quando chiedeva a Relia a che ora terminava il turno. Era felice. Lei gli raccontava di sé con discrezione, con la lentezza che l’essersi sfiorati aveva già fatto intuire loro.
Mario era stato stuzzicato dal gusto della menzogna. Mentire gli sembrava sempre più assolutorio. E convincente. E ben strutturato. In fin dei conti, leggero. L’adrenalina di vivere la totalità di Relia bastava e avanzava anche per le piccole parti che avrebbe dovuto interpretare con la moglie, quando fosse tornata, e con la figlia, quando fosse tornata. Era diventata ancora più solida in lui la convinzione che Maria non fosse figlia sua e, in forza di ciò, Sandra non era il caso meritasse tutto il denaro che continuava a pensare di meritare.

Dopo pranzo, Mario si offriva di accompagnare a casa Relia, che lo faceva salire per offrirgli il caffè, che, se servito da Edoardo, non aveva lo stesso sapore. E colore. E molto altro…

Relia lo faceva accomodare sul divano e lui si sistemava in un angolo, ricordandosi ragazzino in un mare in tempesta con la figlia di zia Elide, che non era sua zia, ma la verduraia di fronte a casa.

Tornata col caffè, Relia si sedeva vicino a lui, sfiorandolo meglio di quella volta nel corridoio. «Hai voglia di baciarmi, vero?»

Lui si era convinto che quel ragazzino non se ne fosse mai andato; insomma, non si chiedeva perché fosse lì, il ragazzino.

Messa così di fronte all’amico oste romano dal nome di re, l’unico amico che l’allevatore di cavalli avesse nella sua vita, la faccenda avrebbe potuto sortire un effetto come quello che si ottiene dall’appoggiarsi a un contrafforte nella navata di una chiesa gotica. Un simile stato d’animo avrebbe infuso in Mario la convinzione che il tracollo insieme al quale era partito si sarebbe appropriato di qualcun altro.

L’autobus aveva terminato la sua corsa, nel senso che si era fermato proprio in mezzo alla carreggiata, non molto distante dal capolinea. Tra la sosta imprevista e quella codificata, l’impazienza di chi avrebbe voluto scendere al capolinea. Tutto sommato, a Mario quella fermata fuori sede era sembrata un contrafforte di riserva, che gli avrebbe consentito qualche boccata d’aria in più, prima di arrivare alla dispensa di Edoardo.

Sceso dall’autobus, lo sentì di nuovo. Ne aveva cercato spesso l’origine, la definizione, in un certo senso anche la cura, ma senza successo. Era una cosa sorda che gli veniva dal cuore ballerino, una specie di freno che gli picchiettava la spalla per ammonirlo a non proseguire, altrimenti sarebbe stato impatto garantito. L’istinto che lo aveva condotto a non fidarsi più di nessuno si stava arrabbiando con lui. Il tracollo, insomma.

Possibile che non mi porti rispetto? Ti ho salvato la vita un sacco di volte, anche nella dispensa dove vuoi tornare. A fare cosa, poi? A lavarti la coscienza? A cercare qualcuno che ti dica: bravo, hai fatto bene a far tornare il ragazzino che eri? A chiedere che Edoardo ti fornisca un tetto dove vivere, lontano dai tuoi cavalli, vicino a una donna che non sai veramente come e con chi trascorre il tempo, tanto, che non trascorre con te? O tutto o niente. Davvero vuoi scegliere tutto?

Preferiva di nuovo la parte. Ecco perché il freno si era ripresentato. Aveva ragione Sandra. Lui non era fatto per la totalità. Lo rendeva squilibrato, sconosciuto a se stesso. La parte, la porzione di mondo in cui era sempre vissuto era l’unica a fidarsi di lui.

Il capolinea ormai a due passi. L’osteria di Edoardo all’angolo. Sarebbe bastato attraversare. Un buon numero di persone sostava in attesa dell’autobus. Non era ancora l’ora di punta. Non sarebbe stato un dramma. Tornare dai suoi cavalli. La sua parte migliore.


In copertina: Gli innamorati in verde di Marc Chagall

Tempo presente è un altro racconto di Annarosa Tonin

Informazioni su Annarosa Maria Tonin 2 Articoli
Annarosa Maria Tonin, laureata in Lettere Moderne, è autrice di racconti e romanzi. Redattrice della rivista "Digressioni", cura eventi culturali legati alla promozione della lettura.