Cercare la propria voce è quanto di più difficile e affascinate per uno scrittore. Elena Rui dimostra nel suo romanzo d’esordio, La famiglia degli altri, pubblicato da Garzanti lo scorso febbraio, l’esito di una ricerca che ha intersecato il bisogno innato di raccontare con l’elemento autobiografico, convergenza che le ha permesso di muoversi con disinvoltura e cognizione di causa a Parigi, capitale in cui attualmente vive, e a Padova, città d’origine. Nei luoghi che conosce trova lo stile della narrazione e ambienta le vite dei suoi personaggi: una protagonista, Marta, e altre figure di minore o maggiore importanza, del presente e del passato che collimano verso un futuro ancora da scrivere.
I temi del romanzo sono tratteggiati dalla scrittrice con discrezione e determinazione, sono tòpoi classici per un verso e rivoluzionari per un altro: se la famiglia e i sentimenti che alimentano le relazioni moglie/marito, genitori/figli, compagni/amanti/amici sono argomenti canonici della narrativa, l’atto nuovo sta nella scrittura scevra da giudizio e ricca di dubbi, una scelta che l’autrice utilizza per mostrare come possano esistere situazioni anomale ma non per questo meno vere. Attraverso la vicenda personale di Marta, la scrittrice si insinua nelle rughe della grande vecchia faccia(ta) della società contemporanea, nei cambiamenti culturali che sono più facili da chiacchierare che da vivere e che, chapeau, proprio uno dei tabù non sfatati, la morte, fa innescare l’ordigno dell’investigazione nella protagonista del romanzo; anche in questa scelta ritroviamo il coraggio dell’autrice di parlare di qualcosa di sconveniente, giacché il veto non è la morte in sé -siamo sopraffatti da migliaia di immagini e non ci facciamo più caso- ma l’attenzione prestata alle reazioni e alle conseguenze di volere scoprire la vita attraverso la morte, nel caso del romanzo proprio grazie al pretesto formale dell’incontro della famiglia in un giorno preciso: il funerale.
Il prologo, infatti, si apre con la morte della nonna di Marta e la sua decisione di lasciare Parigi per essere presente alla cerimonia. Ciò che un viaggio, apparentemente banale, scatena nella protagonista è l’elaborazione della perdita, la necessità di comprendere il vissuto della nonna Ada – e il suo – nell’assenza, attraverso dettagli sfuggiti all’occhio di ragazza che, ora, riemergono in quello di donna e si trasformano nel desiderio di conoscenza. La trama è avvincente, il lettore resta costantemente in attesa di sapere cosa accadrà in quelle relazioni, familiari e amorose, a cui Marta sta tentando di restituire un senso di verità, non quella assoluta e universale, Marta ne è pienamente consapevole, ma quella verità intima e personale che non sempre è facile vedere, riconoscere e accettare.
Intervista
Elena, cosa significa per te scrivere?
La scrittura ha significato cose diverse per me, nel corso degli anni. Paradossalmente, la costante è la difficoltà: scrivere è qualcosa che mi costa e mi riesce difficile, ma che ho bisogno di fare, da sempre. Da bambina, da adolescente, ma anche da ragazza, fino alla soglia dei trent’anni, non mi sentivo capace d’inventare e nella scrittura cercavo uno sfogo. Mi piace pensare che la stagione dei diari e delle lettere sia servita a farmi spurgare un eccesso di lirismo, che da lettrice m’infastidirebbe e che quindi non voglio utilizzare quando scrivo. Mi sono cimentata nei primi racconti, quando ho capito quale poteva essere il mio modo di creare: far continuare il reale nella finzione. A partire da quel momento la scrittura ha assunto un’importanza crescente. Con la pubblicazione di La famiglia degli altri ho preso coscienza del fatto che non posso definirmi in modo onesto senza menzionare il fatto che scrivo.
La famiglia degli altri è un titolo efficace: pone l’attenzione sulla preferenza a volgere lo sguardo all’esterno piuttosto che all’interno della famiglia. Eppure, l’osservare “le famiglie degli altri” può rispecchiare qualcosa della propria. Ci racconti come nasce l’idea di questo romanzo?
Anche La famiglia degli altri è una continuazione della realtà nella finzione. In questo caso, ho creato un alter ego, Marta, a cui ho attribuito i dubbi e le domande sul senso della famiglia e della coppia che mi tormentavano in quel momento. Intorno a questa protagonista, che presenta volutamente elementi biografici esteriori simili ai miei, ho costruito personaggi, situazioni e avvenimenti di fantasia. È così che è nato il romanzo. Marta si interroga su che cosa rappresenti per lei essere donna, moglie e madre. In questa sua ricerca non può fare a meno di volgere lo sguardo verso l’esterno e confrontare la propria con la famiglia degli altri. È un passaggio obbligato, perché ci definiamo inevitabilmente rispetto a chi ci sta intorno, ai suoi comportamenti e all’immagine di noi che ci rinvia.
Marta, la protagonista, è moglie, madre, amante, lavoratrice e donna-ragazzina che scopre un segreto e sceglie di ricondurre la propria vita al vero. Come sei riuscita a tenere questi ruoli in equilibrio e qual è stato quello più difficile da caratterizzare?
Non so se sono riuscita a tenere questi ruoli in equilibrio. Se è questa l’impressione che Marta lascia nel lettore è perché il suo equilibrio sta nel disequilibrio. Dev’essere questo che rende Marta un personaggio credibile.
Dei ruoli sociali che tu elenchi, credo che il più difficile da caratterizzare in un alter ego sia quello della madre: ho un pudore naturale molto più forte per l’esplorazione di questa dimensione che non per le altre.
Ci sono due protagonisti fantasma nel tuo romanzo, la coppia Sartre-De Beauvoir: un celato elogio alla letteratura francese?
Conosco meglio la letteratura italiana di quella francese, a cui mi sono avvicinata adulta e rispetto alla quale sento di avere molte più lacune. Non ricordo esattamente cosa mi abbia attratta all’inizio nell’Esistenzialismo: un’aura, qualcosa di mitico, d’irrazionale e all’inizio indubbiamente superficiale. Ma ad un certo punto ho iniziato ad interessarmi proprio alla filosofia e mi sono messa a seguire a distanza i corsi dell’Università popolare di Marsiglia sulla fenomenologia di Sartre tenuti dalla professoressa Annick Stevens. Le ho anche scritto quando quando avevo dei dubbi su quello che stavo leggendo. Le letture che attribuisco a Marta sono ovviamente mie: sia i romanzi di Sartre e Beauvoir, sia i saggi. Ho scelto di farla confrontare in modo continuo e privilegiato con Il Secondo sesso, perché era più pertinente rispetto ai quesiti che si poneva, ma non è da là che sono partita.
Quindi direi che se nel mio libro si può vedere un omaggio, si tratta veramente di un omaggio a loro due: a Sartre e Beauvoir.
Le convenzioni sociali, uno dei temi che emergono dal sottotesto, pone attenzione a due strutture sociali contemporanee che hai la possibilità di confrontare: quali sono le analogie e le differenze tra i due mondi in cui si svolge il tuo romanzo?
Attraverso l’espediente del funerale della nonna di Marta e del viaggio a Padova, mi sono divertita a mettere a confronto la mentalità di una capitale europea come Parigi con quella di una città di provincia italiana. In una realtà provinciale, le maglie dei rapporti sociali sono molto più strette e lo sguardo degli altri riesce più facilmente a inchiodarci a un’identità definitiva. Ma la famosa frase che Sartre attribuisce a Garcin in Huis clos – l’inferno sono gli altri – è valida universalmente, a Padova come a Parigi, perché le persone che ci stanno intorno, in qualsiasi contesto sociale, ci rinviano un riflesso di noi stessi da cui è difficile fare astrazione e che ci limita nelle nostre azioni e nelle nostre scelte.
Infine, ci sono nuovi progetti in corso?
Sì, certo e spero ce ne saranno sempre. Sto ultimando un romanzo che riprende alcune tematiche che mi sono care: la famiglia, i rapporti di coppia, la scrittura, ma da un punto di vista diverso e con una voce maschile.
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Se il tema delle relazioni familiari è affine alle vostre letture, consigliamo anche Alba senza giorno di Fernando Coratelli, uno dei tre romanzi di Paolo Zardi e Stato di famiglia di Alessandro Zannoni.