Irreversibile | Racconto di Antonio Varchetta

Polly Portrait ph. Cristina Lovadina per irreversibile

Un particolare, come la fede nuziale indossata o meno, è l’incipit perfetto per un racconto.

Antonio Varchetta ricama attorno a questo dettaglio un disegno geometrico, fatto di vuoti e pieni, di luce e ombra, e ci tiene sospesi tra incredulità, necessità di sapere e ipotesi vorticose, un turbinio di sentimenti fino all’ultima riga.

Buona lettura.

IRREVERSIBILE

Ho sempre pensato che l’avrei capito. Ho sempre sostenuto, con Luca prima di tutto, ma anche con gli amici, che se mai mi avesse tradita io l’avrei capito. Addirittura, ero convinta che avrei riconosciuto il tradimento nei suoi germogli, quando ancora non ha corpo, quando vive soltanto di sollecitazioni e connessioni pericolose, quando è così labile da poter ancora regredire. In verità, senza avere il minimo sospetto e senza percepire alcun cambiamento, non ho capito nulla.

Luca è rientrato a casa la sera e ha appoggiato le chiavi sulla mensola dell’entrata. In quel momento, ho visto la sua mano e le sue dita eleganti. Ho visto che non indossava la fede.

Non gli ho detto nulla. Non avrei saputo trovare le parole adatte. Ho apparecchiato la tavola e ci siamo seduti per la cena. Avevo preparato delle bistecche con i piselli. Perché sapevo che a Luca piacevano, e volevo farlo contento. Ma lui ha mangiato svogliato, sembrava non avere fame. Ha lasciato sul piatto metà della carne, continuando a spostare i piselli con la forchetta, da una parte all’altra. Si è versato anche del vino, ma poi ha lasciato il calice sul tavolo, senza toccarlo.

Ho provato a chiedergli com’era andata la giornata. Mi ha risposto a fatica, e raccontava solo a tratti. Sembrava distratto, di più, sembrava volesse evitare di parlarmi. Distoglieva spesso lo sguardo. Tamburellava con le dita sulla tovaglia, le dita della mano sinistra, quelle dita che non riuscivo a non guardare.

Quand’era successo? Quando era stato il momento esatto? Non facevo che chiedermelo. Quell’istante era scivolato via nel più assoluto anonimato, mentre io, come distratta, rimanevo in un’altra stanza.

Poi, Luca si è alzato e mi ha detto che doveva telefonare.

Sono rimasta seduta a tavola. Non avevo nemmeno la voglia di sparecchiare. Sentivo la voce di Luca che veniva dal corridoio, ma non riuscivo a riconoscere le parole. Era solo un mormorio, ora leggermente più distinto e in altri punti più confuso. Erano solo dei suoni, senza un significato concreto. Con chi era al telefono? La domanda martellava nella mia testa. Con un collega? Stentavo a crederlo. Allora? Parlava al telefono con lei?

Avrei voluto alzarmi. Avrei voluto trovare una scusa per avvicinarmi, magari chiamarlo per il dolce, andargli vicino e vedere la sua reazione, rubare qualcosa di quello che stava dicendo.

Invece, sono rimasta seduta a tormentare il tovagliolo. Continuavo a chiedermi che nome potesse mai avere lei, come se questo fosse davvero importante. Che stupida.

Quando ha finito di telefonare, Luca si è ritirato nello studio. Mi ha detto che si era portato a casa del lavoro da sbrigare. Allora, mi sono decisa, mi sono autocostretta ad alzarmi, e ho sparecchiato la tavola. Poi, sono salita di sopra, in camera. Ma continuavo a sentire il tono della sua voce al telefono, il tono di prima, quando era ancora nel corridoio, e mi sembrava, mentre si ripeteva e rimbalzava senza smettere nella mia testa, mi sembrava troppo dolce e confidenziale, per credere che stesse davvero parlando con un collega.

Ho provato lo stesso a sdraiarmi, ma ero troppo agitata. Per un po’, ho provato anche a leggere, ma non riuscivo a seguire il testo. Le parole si ripetevano e ripetevano accavallandosi. Allora, ho messo giù il libro. Sono andata in bagno, mi sono lavata i denti, ho messo la crema sul viso. Quando sono rientrata in camera, ho visto la fede.

Brillava sotto la luce gialla della abat-jour. Era appoggiata sopra una busta bianca, sul ripiano del suo comodino.
Sono rimasta in piedi a guardarla per un po’. Luca non era come quei mariti che la indossavano e la toglievano con facilità, a seconda delle situazioni, magari solo perché dovevano fare un lavoro pesante e avevano paura di rovinarla, o temevano che potesse dare loro fastidio. No. Luca la portava sempre addosso. Allora? Come mai era lì? Mi sono detta che l’avrei aspettato e poi gli avrei chiesto spiegazioni. La fede brillava, però, e sembrava un grande punto esclamativo.

Non ho saputo resistere. Mi sono avvicinata, ho preso la busta e l’ho aperta. Dentro c’era una lettera dell’ospedale. Un promemoria. Ricordava a Luca l’appuntamento per un esame diagnostico. Doveva sottoporsi a una Risonanza Magnetica. E l’avviso gli ricordava che, in quell’occasione, non doveva avere addosso il cellulare e le carte di credito, non poteva indossare lenti a contatto o apparecchi acustici, e nemmeno gli occhiali e l’orologio, o eventuali piercing e gioielli. Il giorno dell’esame, era meglio che non indossasse dei gioielli. Il giorno dell’esame: proprio quel giorno.

Perché non mi aveva detto niente?

Sono rimasta in piedi, con la lettera in mano. L’ho riletta da capo. Lentamente. Ho guardato la fede sopra il comodino. Pensavo a tutte quelle volte in cui Luca si era lamentato per i dolori alla schiena. Mi aveva confidato, più di una volta, il timore di avere un’ernia.

Ho controllato ancora una volta la lettera, di nuovo la data dell’esame, e ancora ho guardato la fede. Era tutto così semplice?

Mio padre diceva è un altro racconto di Antonio Varchetta

Immagine di copertina © Ph. Cristina Lovadina

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