Un progetto, in genere, ha un inizio e una fine.
Quest’ultimo studio di Raffaello Bassotto una conclusione, temiamo, ancora non ce l’ha. Quando tutto iniziò, nella mente del fotografo il tema rilevante e il motore di ricerca si sintetizzavano nel titolo “La vita segreta degli oggetti”. L’ironia della sorte, però, ha provocato una deviazione: un segreto, tenuto nascosto e poi rivelato, cambia le carte del gioco e modifica l’approccio dell’arte, mutandone la prospettiva che ritma il tempo dello scatto, e, come nella danza, ammorbidisce il gesto e aspetta l’attimo en l’air. È con pazienza e attenzione che il fotografo si è preso cura degli oggetti, ha studiato una scenografia e li ha immortalati nella loro ultima ballata. È così che le immagini sono diventate qualcosa d’altro, hanno cercato la vita segreta degli oggetti e sono andate oltre, astraendosi.
Il primo spunto a questo inusuale e intenso lavoro va ricercato nelle immagini di Walker Evans dedicate agli oggetti di uso comune, apparse nel luglio 1955 in Fortune Magazine, rivista per cui Evans fu fotografo, scrittore e photo-editor; qui il fotografo americano definiva un negozio di ferramenta come un “insolito museo”, luogo in cui questi utensili apparivano ai suoi occhi come standard di “eleganza, candore e purezza”. Egli scrive che nulla è così attraente per i sensi come lo strumento manuale quotidiano e, proprio per questo, ne loda la manifattura curata in ogni dettaglio. Sono quelli gli anni in cui si sviluppa negli Stati Uniti la Pop Art che si concentrerà sul valore intrinseco dell’ordinario e del popolare, estraendo gli oggetti dal loro contesto ed estremizzandone il carattere con la ripetizione seriale della forma e l’utilizzazione del colore.
Stimolato Evans, Raffaello Bassotto comincia a ricercare nel mercato antiquario quegli oggetti appartenuti a un passato recente ma tecnicamente assai remoto, arnesi utili a quei lavori manuali ormai sostituiti dai processi automatizzati, ma anche oggetti dal significato ormai ignoto o dimenticato. Questo fu l’inizio perché, fin dai primi scatti, il fotografo veronese intuì l’eccezionalità dei soggetti-oggetti, pur nascosta nella semplicità delle linee, e avviò così una nuova fase di ricerca: accostamenti di forme, contrasti di colori e situazioni nuove vengono a crearsi sotto lo sguardo dell’obiettivo come a recuperare un nuovo e più essenziale valore estetico. Grazie alla fotografia l’oggetto-soggetto, isolato dal suo contesto funzionale, prende vita e si ripropone come “ready-made”, in virtù della scelta dell’artista che con il suo intervento lo eleva così al livello di opera d’arte. Siamo consapevoli di quanto rischiosa sia quest’ultima affermazione eppure riteniamo che il risultato finale del progetto esprima questo concetto.
Le immagini presentate al pubblico cominciano a trasmettere un’armonica convivenza di determinatezza e indefinito. Gli oggetti del quotidiano, trasferiti nella fotografia, sono trasformati in altro: la cosa materiale pura e cruda assume una forma autonoma. Il processo fotografico e la ri-contestualizzazione consentono agli oggetti “una vita indipendente” all’interno dell’immagine, come se fossero caratterizzati da una nuova esistenza all’interno della stampa.
Ciò che inizialmente voleva essere un omaggio allo studio di Evans è così uscito dall’ambito strettamente tecnico della fotografia per affacciarsi a un’idea universale di arte, in una costante ricerca dell’essenzialità delle forme. Ecco allora che nelle immagini di Raffaello Bassotto si celebra Giorgio Morandi, figura solitaria e insolita proprio per avere dipinto quasi esclusivamente bottiglie, vasi, ciotole e caffettiere… oggetti d’uso comune, appunto. Egli si fa scultore e avvia un processo “a togliere”: l’oggetto, con il taglio secco della fotografia, viene inserito in un contesto che tende a denudarlo e impoverirlo, non solo della sua funzione, ma di quella che era stata la sua vita apparente. Si delinea allora ciò che la vita segreta degli oggetti voleva comunicare: una rielaborazione che diviene una nuova materia creativa.
È in questo momento che il progetto necessita di un nuovo adattamento e, nell’ottica moderna del work in progress, Bassotto esprime con forza la sua personalità di artista visionario e di fotografo non più profugo della rivoluzione digitale. La cerca del segreto nella vita di oggetti anonimi ha trasformato il nome del progetto, conducendo il fotografo all’estremo limite che sancisce il passaggio tra fotografia e pittura. Questo tipo di concezione dell’immagine, infatti, trova lontane consonanze anche nella pittura fiamminga che con Jan van Eyck, utilizza la camera oscura come tecnica per disegnare ogni particolare della scena, così da creare quell’effetto di realtà che alcuni critici hanno definito di verosimiglianza alla fotografia. Lo studio di Bassotto delinea il processo inverso: il dettaglio fotografico, la tecnica e la carta da lui utilizzate, provocano l’impressione di qualcosa di surreale. Le fotografie, attraverso un gioco di luci e ombre, a volte anche di sospensioni aeree, permettono agli oggetti di svincolarsi dal reale fino a lambire quel confine che separa la fotografia dal dipinto, illudendo lo sguardo e provocando nello spettatore la percezione di una realtà onirica, ove l’oggetto si fa tramite di un’esperienza estetica.
Lo studio sugli oggetti offre perciò un compendio di evocazioni artistiche storiche che attraversano il mondo dell’arte: dalle reminiscenze fiamminghe a Giorgio Morandi, da Walker Evans alla Pop Art, dal surrealismo di Man Ray e Marcel Duchamp alla La Trahison des images di René Magritte, con uno spirito osservatore che gioca con la luce, per illuminare con la stessa forza l’indefinitamente piccolo e l’indefinitamente grande.
Ma la domanda iniziale resta: qual è quindi la vita segreta degli oggetti?
L’apparente contraddizione nell’attribuire vita a qualcosa che di vivo non ha nulla, si giustifica con l’insorgenza nello spettatore di due sensazioni distinte, ancorché simultanee. Da un lato la ferma volontà -quasi un senso di necessità- di dare alle cose il loro giusto nome, un riflesso della mente umana di associare l’immagine percepita dall’occhio a un archivio interiore; dall’altro l’immediata capacità di produrre illusioni, recuperando ricordi emotivi, visivi e olfattivi e raggiungendo così, fino ai suoi estremi limiti, tutte le potenzialità racchiuse nell’oggetto.
Come per ogni artista e per ogni spettatore, l’arte è un’esperienza soggettiva e anche nel nostro caso quegli oggetti hanno bisogno di dimenticare il nome, la forma e la funzione per cui erano stati creati, per assurgere, attraverso le linee e la luce, a fonte di esperienza estetica.