L’antinomia tra le aree della produzione industriale e quelle destinate al dimorare
La vita delle attuali città moderne, al di là delle contraddizioni naturali del loro sviluppo urbano, si precisa sovente attraverso una sorta di antinomia “qualitativa” tra quelle che, convenzionalmente, vengono chiamate le aree della produzione industriale e quelle destinate invece a soddisfare gli aspetti specifici del dimorare.
Le prime, anche quando funzionano ancora, sono terra di nessuno, una specie di territorio di frontiera urbana pronto a spopolarsi completamente una volta terminate le attività di produzione. In ogni caso si presentano sovente come delle zone anonime, staccate dalla “vita” reale che si respira nelle altre parti della città.
In altri termini, raramente si è riusciti a trovare il giusto equilibrio tra l’aspetto dell’abitare, del dimorare e quello legato invece alla produzione, al lavoro. Al contrario, il centro abitato ed il “centro industriale” non solo risultano privi di qualunque tipo di rapporto, ma sovente si confrontano con diffidenza e sospetto se non addirittura con paura.
Il caso della città di Mestre, nel Veneto, e del suo stabilimento industriale di Marghera possono essere presi come esempio emblematico per quanto riguarda questo tipo di situazioni. Ma quando il lavoro con le sue attività connesse risulta strettamente unito alla vita di un luogo urbano, parte viva del suo pulsare, quando il “produrre” diventa veramente una prerogativa fondamentale dell’esistenza di una comunità, allora, in maniera quasi magica, si stabilisce un’unione tra i luoghi della produzione ed i luoghi dell’esistenza abitativa.
Nel nostro Paese un caso molto interessante in tal senso è rappresentato dalla città toscana di Follonica, nata e sviluppatasi in simbiosi con i suoi apparati di lavorazione e trasformazione del metallo ferroso.
Nonostante sia oggi conosciuta soprattutto come una moderna realtà balneare, questa città affonda le sue radici storiche all’interno di un processo evolutivo, che ha considerato la lavorazione del ferro fuso come elemento fondamentale per la nascita e la metamorfosi del suo tessuto urbano. Oggi questo connubio tra realtà urbana e realtà industriale è stato spezzato a causa della chiusura degli stabilimenti produttivi del ferro ed altre “Folloniche” si sono sostituite alla Follonica del ferro.
Tuttavia è pur sempre possibile, per chi sa osservare e non guardare una città, scoprire all’ interno di questo centro abitato delle “tracce”, dei segni in grado di riportare a galla la memoria di un passato produttivo ed artistico di enorme importanza. Un passato capace di determinare la peculiarità stessa dello spazio civico attraverso la creazione di manufatti architettonici e di arredo urbano qualitativamente notevoli.
L’arte della lavorazione del minerale ferroso comparve nel territorio di Follonica già nel 1546 quando gli Appiani, signori dello Stato di Piombino, fecero costruire una ferriera che, con l’andare del tempo, permise a questo insediamento rurale di diventare un centro produttivo importante per la facile accessibilità ai suoi impianti via mare. La fama della lavorazione del minerale si mantenne elevata anche nei secoli successivi fino a raggiungere il suo apogeo nel corso del XIX secolo, quando Leopoldo II di Lorena, sovrano del GranDucato di Toscana, ampliò e ristrutturò gli stabilimenti esistenti determinando un aumento della produttività.
Nacque così la necessità di rendere più salubre e stanziale la presenza dei lavoratori dello stabilimento, creando una struttura urbana dove poter fare alloggiare i lavoratori. Grazie ad una serie d’interventi di risanamento dei terreni paludosi maremmani, prese corpo, a partire dal 1836, il disegno di un impianto urbanistico imperniato attorno ad un’asse viario fondamentale: quello che dal 1782 collegava Massa Marittima con la Marina di Follonica.
Attorno a quella che verrà chiamata successivamente la Via del Commercio si sviluppò un vero e proprio piano urbanistico ante litteram, fortemente voluto dallo stesso sovrano Leopoldo II e dagli architetti Manetti e Leoni, incaricati della sua realizzazione. Una progettazione urbanistica che ebbe sempre, come punto di riferimento ben preciso, i luoghi, gli aspetti e le esigenze legati alla produzione del ferro fuso.
Non a caso, infatti, nacque una nuova fonderia, progettata e realizzata contemporaneamente alla tracciatura della rete viaria del nuovo insediamento abitativo; vero e proprio “tempio” nel quale praticare il culto della fusione ferrosa. E perfino l’edificio più simbolico e caratterizzante di Follonica, la chiesa del Reishammer, rivolse la sua entrata principale verso i manufatti del complesso produttivo, quasi ad omaggiarli, allineando il suo campanile con la “metallica” Torre dell’Orologio che scandiva, attraverso i rintocchi delle sue campane, i ritmi della vita e del lavoro della comunità.
Insediamento urbano e quello produttivo si fusero quindi in un tutt’uno. La città, trasformata essa stessa in “Fabbrica del ferro”, si costituì, nelle sue parti, attorno ad un “locus” nel quale il minerale, lavorato e trasformato, aspirava a diventare il simbolo di una realtà, non più solamente produttiva ma anche e soprattutto artistica e spirituale.
Il ferro fuso, lavorato dalle abili mani degli artigiani, si caratterizzava come l’elemento “forgiante” della città. Con questi intenti, credo, l’architetto Reishammer diede vita, nel 1835, alla Fonderia Artistica dello stabilimento di Follonica destinato, in un breve lasso di tempo, a sfornare un’interessante produzione di oggetti in ghisa per l’arredo urbano della città toscana e non solo.
Tuttavia, le insalubri condizioni climatiche della zona, che sempre avevano impedito la completa realizzazione dello sviluppo industriale della città, misero di fatto anche la parola fine a quell’unione magica tra centro abitato e luogo di produzione che era stata alla base della sua stessa iniziale esistenza.
Paradossalmente, nel corso del XX secolo, lo sviluppo urbanistico della città toscana coincise con il mancato accrescimento degli impianti di lavorazione del ferro fuso. Piombino e Portoferraio raccolsero l’eredità di Follonica nel campo della siderurgia toscana e gli opifici di questa città chiusero i battenti il 20 Febbraio del 1960.
L’utopia della città, che si sviluppa in armonia con la propria “agorà industriale”, si infrange dolorosamente contro l’arida realtà delle leggi economiche della produzione.
L’oblio nei confronti dello stabilimento di Follonica trasforma la sua parte più carica di storia in una specie di zona urbana marginale, di frontiera anonima. Fortunatamente, in tempi recenti, l’intervento dei gruppi culturali e del Comune di Follonica ha permesso di recuperare la memoria storica dell’antica “anima produttiva” della città, attraverso un interessante lavoro didascalico – informativo riguardante le caratteristiche, non solo funzionali, delle strutture lavorative ormai obsolete e dimenticate.
E nel 2013 nasce il Museo delle arti in ghisa nella Maremma che così viene presentato dai suoi curatori:
C’è un’Ilva che risorge dalle ceneri del passato e si reinventa in un museo futuribile: il MAGMA. Si tratta delle prime fonderie Ilva, nate a inizio ‘800 a Follonica, sulla costa della Maremma. Il 29 giugno 2013 Follonica riabbraccia così il suo antico forno fusorio, abbandonato dal 1960, ora completamente ristrutturato e allestito con un moderno museo interattivo. Un viaggio virtuale nel tempo e nello spazio alla scoperta della culla della siderurgia italiana, in uno straordinario monumento di archeologia industriale.
Un recupero della capacità di ricordare quindi. E la ricordanza, così come l’utopia, servono per continuare a camminare. Continuano ad esistere sempre, anche quando non riusciamo più a scorgere o a rievocare. Formano il sogno che ci permette di sfuggire all’aridità dell’esistenza diventando più felici.
E nascere, o vivere in un luogo urbano capace di recuperare il senso della sua storia, contribuisce a rendere più felici gli uomini.
Referenze
Museo delle arti in ghisa nella Maremma
Manuele Elia Marano, fotografo e architetto
Manuele Elia Marano nasce ad Udine l’8 dicembre 1958. Laureato in Architettura segue per più anni, presso lo IUAV di Venezia, i corsi di fotografia tenuti dal fotografo Italo Zannier. Si è da sempre interessato al linguaggio fotografico, prima analogico ed in seguito digitale. Partendo dalla fotografia architettonica ha successivamente rivolto i suoi interessi anche al paesaggio ed alla figura umana, esponendo le sue opere in numerose mostre personali.