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Il titolo scelto da Paolo Zardi per questo racconto è tanto laconico quanto provocatorio. Cos’hanno in comune un robotino tosaerba e un batterio? E perché compaiono come metafore nella mente di un ordinario cinquantenne in viaggio per lavoro?
Quando sembra non ci sia nulla che valga la pena d’essere raccontato, scopriamo che qualcosa può essere oggetto di una breve storia. La penna dell’autore padovano inaugura la pubblicazione di racconti, con cadenza quindicinale, per la nostra rivista. Buona lettura!
Escherichia Coli
Aveva tuonato tutta la mattina – il brontolio rauco di un vecchio rancoroso – ma non era caduta neppure una goccia. L’erba arsa del prato che si estendeva tra i due edifici principali aveva atteso invano l’acqua. A mezzogiorno, infine, si era levato improvvisamente un vento freddo, che aveva spostato le nuvole da un’altra parte, e portato con sé il profumo di pane di un forno industriale che sorgeva oltre la tangenziale, a due o tre chilometri da là.
In mensa la coda era lunghissima e rumorosa; quando fu il suo turno prese un piatto di gnocchi con il pomodoro e un filetto di un pesce con un nome che non aveva mai sentito. Mangiò da solo, guardando le donne dei tavoli accanto; la più bella aveva una maglietta nera e un’ampia gonna azzurra, e rideva con due colleghi; più in là ce n’era un’altra irrimediabilmente brutta e anche lei rideva, inconsapevole. La mattina, mentre parcheggiava la macchina davanti all’azienda del cliente, aveva visto una ragazza con l’ombelico fuori, le gambe abbronzate, e labbra contratte nello sforzo di essere turgide.
La riunione del pomeriggio andò bene, tanto che alla fine si strinsero tutti le mani e si augurarono buone vacanze. Andando verso l’uscita, intravide il robotino che tosava l’erba, un barbiere impegnato da anni a perfezionare un unico cranio: andava avanti e indietro con un senso del dovere commovente e quando urtava un ostacolo correggeva la propria traiettoria, usando la stessa intelligenza di certe creature primordiali che interagivano con il mondo applicando due o tre semplici schemi.
Da qualche parte aveva letto che l’Escherichia Coli, un organismo unicellulare, aveva due modalità di movimento, messe in atto attraverso la vibrazione dei flagelli: una prevedeva movimenti casuali, l’altra uno scivolamento veloce in una direzione precisa. A intervalli regolari di pochi secondi passava da una modalità all’altra, fino a quando non trovava un gradiente crescente di sostanze nutritive o di sostanze tossiche; allora, stabilizzava la propria direzione per seguire il cibo o fuggire dal pericolo. Non serviva molto, per sembrare intelligenti: desideri minimi, e grandi paure. Era per questo che la macchinetta del prato sembrava viva? Una sera l’aveva sorpresa mentre, con le ruote piene di fango, ritornava nella sua casetta a ricaricarsi le pile, dopo una giornata di duro lavoro.
Si mise in macchina alle sei. La pianura era tutta ricoperta di balle di fieno. Camion giganteschi si sorpassavano al rallentatore. Lungo l’orizzonte si erano disposte nuvole bianche e goffe. Da qualche giorno pensava a un racconto che voleva scrivere: aveva letto di un concorso di fantascienza e gli era venuta voglia di partecipare. Non ci aveva mai provato. Non aveva mai scritto un racconto in vita sua, a dire il vero. Da giovane aveva imparato a suonare il pianoforte da solo, ma non andava a tempo, come succede spesso agli autodidatti che non si confrontano con nessuno. Per anni aveva raccolto tappi della birra, senza mai domandarsi perché si fosse trovato un hobby tanto stupido – in cantina aveva ancora due scatoloni pesantissimi che non si decideva di buttare.
Per il racconto, sentiva di avere una buona idea: un’azienda aveva creato un dispositivo in grado di determinare se un soggetto stava mentendo. Questo aggeggio era stato tarato attraverso dei test condotti su un gruppo di uomini ai quali veniva chiesto di dire, alternativamente, una verità e una bugia; successivamente i responsabili dell’azienda si erano resi conto che quei pazienti, in realtà, avevano mentito… Ecco, non sapeva come inserire un intreccio così complesso, e così noioso, nelle poche pagine di un racconto. Avrebbe dovuto inventare un macchinario più semplice, che faceva cose meno complicate. O forse la fantascienza non era il suo genere: in fondo, aveva solo voglia di parlare della sua vita.
In quel momento, ad esempio, il cielo scarlatto, il verde dei campi, i filari di alberi tutti uguali che si perdevano in lontananza, le onde sinusoidali che i fili elettrici ai bordi della strada disegnavano nell’aria, perfino alcune casette bianche e gialle disposte con geometrico rigore, gli risuonavano dentro, come se il confine tra lui e ciò che lo circondava non fosse il sottile strato di pelle che conteneva il suo corpo, ma qualcosa di più vago, di più ampio e di meno impermeabile. Era commosso per il solo fatto di essere al mondo. Da qualche parte, però, aveva letto, o aveva sentito, che nei racconti l’elemento autobiografico può essere al più un punto di partenza, lo spunto per iniziare, ma non il traguardo, lo scopo, l’obiettivo ultimo.
La vita vera era un oggetto senza forma, incompleto, confuso; le cose accadevano per caso, oppure non succedeva mai niente. Nella realtà di tutti i giorni, mancavano i nessi di causalità, la simmetria che crea stupore, un’organizzazione degli eventi, qualcosa che li mettesse in relazione. E in effetti, guardandosi attorno, non c’era nulla che valesse la pena raccontare: non le viti tutte storte, che ora avevano preso il posto dei campi mietuti, alla sua destra; non le stradine che per un breve tratto affiancavano l’autostrada e poi si allontanavano di colpo, infilandosi tra platani e castagni fino a sparire; neppure la vecchia con gli occhiali spessi due dita che da una decina di chilometri continuava a sorpassarlo, per poi piazzarsi davanti a lui, in un’improbabile sfida. Non c’era verso di riuscire a tradurre quelle cose più o meno inanimate in una storia che avesse senso ascoltare; ma anche se scrivere non faceva per lui, quel vuoto fantasticare gli dava un piacere semplice e sincero.
Si fermò in un autogrill. Fece pipì; prese un caffè; fumò una sigaretta. Una comitiva di disabili scese da un pullman e invase la piazzola. Una delle loro accompagnatrici aveva i capelli lunghi e la frangetta, e lo stesso naso piccolo e lo stesso mento pronunciato di una fidanzata che aveva avuto tanto tempo prima; e quando gli passò accanto, trascinandosi dietro un uomo senza mani, a lui venne in mente che quella notte l’aveva sognata – non lei, ma la ragazza con la quale era stato assieme per molti anni; aveva ricordi vaghi, di quanto era accaduto durante quel sogno, ma avvertiva la pressione sorda del dolore di quando lei lo aveva lasciato, una versione autunnale e mesta dello strazio originale. Pure i suoi sentimenti, perfino quelli inventati nel sonno, si erano conformati allo stile dei suoi cinquant’anni: la superficie con la quale premevano sul suo cuore non era più la punta di un ago, ma piuttosto il cerchio piatto di un martello.
La sua età era l’equivalente del lesso, del mezzofondo, del basso tuba, delle station wagon con l’impianto a gas, del marrone, della canottiera, del valzer lento, della persuasione che soffocava l’irruenza, della ragione che piegava il sentimento: non era ancora finita, certo, ma erano già passate le cinque della sera e gli inservienti avevano spazzato via il sangue mescolato alla rena; rimaneva tutto il tempo per un giro di agua ardiente, una partita a carte e una storia d’amore raccontata ad alta voce, ma un occhio non smetteva di sbirciare il sole, impegnato nella sua discesa dietro l’orizzonte alberato, oltre le colline. Non era propriamente vecchio; tuttavia, l’immortalità dei giovani se ne era andata da un pezzo. Ora, per quanto si sforzasse di non pensarci, gli capitava di soffermarsi, per attimi sempre più lunghi, sulla fine delle cose, e per la prima volta nella sua vita sentiva che se fosse morto, anche così, all’improvviso, proprio quel giorno, non se la sarebbe sentita di indignarsi più di tanto: in buona fede, doveva ammettere che il grosso era già passato, e che comunque aveva avuto abbastanza, sebbene in fin dei conti avesse avuto così poco.
In macchina gli tornarono in mente altri dettagli del sogno. Un uomo con sei dita per piede aveva lasciato impronte sulla sabbia. C’era stato uno scambio di persona, uno di quelli che capitano spesso mentre si dorme. Più cercava di mettere a fuoco quei particolari cangianti, e più si rendeva conto che i sentimenti e i fatti avevano corso su binari diversi: i primi non discendevano dai secondi sulla base di un rapporto di causa ed effetto, ma emergevano inaspettati, senza una ragione. Avvertiva, tra i ricordi, anche piccoli barlumi di gioia: qualcuno, nel costruire quella storia notturna, aveva mescolato le carte e la sofferenza per la perdita dell’amore era finito nello stesso scomparto di una felicità struggente e perduta. Era un dolore dolce, come se, nel momento dell’abbandono, i giorni passati insieme, quelli belli, le corse, le promesse, i primi baci, fossero riemersi tutti insieme. I punti distanti della sua vita si erano appiattiti su un unico fondale: era come osservare la volta celeste, dove stelle vecchie di miliardi di anni brillavano accanto a lucette più recenti. Il tempo, nel suo procedere implacabile, toglieva ardore e profondità con la stessa violenza.
Poi il cielo divenne blu, e le cose persero il loro colore: gli alberi scuri, le case grigie, le montagne nere sullo sfondo… Rimanevano solo i fanali delle auto a violare l’oscurità della sera, il lampeggiare arancione delle frecce, il rosso delle frenate improvvise e ogni tanto un segnale luminoso che avvertiva della presenza di un ostacolo sulla strada, al chilometro 133. Casa sua non era lontana: il profilo dell’orizzonte era tornato a essergli famigliare. Era stanco e sereno. Come il piccolo, instancabile tosaerba, aveva fatto il suo dovere e ora era arrivato il momento di ricaricare le batterie… In fondo le loro vite non erano così diverse: condividevano desideri semplici, qualche talento specifico applicato con pazienza, una certa attenzione nell’evitare i pericoli… e chissà se anche quella scatoletta, la sera, rimuginava sulla giornata trascorsa, se ricordava qualcosa del verde dell’erba, del suo odore, del batticuore di fronte a un ostacolo, del sole che aveva attraversato il cielo da parte a parte; chissà se aveva piccoli rimpianti, qualche ferita, e ricordi dolci che venivano a cullarlo nel cuore della notte.
Ecco, avrebbe potuto scrivere un racconto di fantascienza su quel robotino. Sui suoi sogni. Sulla sua paura della morte e sulla tenacia con la quale vi si opponeva. Poi, finalmente, vide la sua uscita, la imboccò e fu presto a casa. Chiudendosi la porta dietro le spalle, pensò, sorridendo, che anche quel giorno non era successo niente che valesse la pena di essere raccontato.
Immagine di copertina © Ph. Archivio Raffaello Bassotto