Il regista Mario Mertone, si presenta alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia con “Capri-Revolution“, che uscirà nella sale il 13 Dicembre 2018.
Si ricordano i suoi successi precedenti: “la morte di un Giovane napoletano”, lungometraggio del 1992, dove ha conseguito il Premio delle Giuria alla Mostra di Venezia; “l’amore molesto”, vincitore del premio David di Donatello al festival di Cannes nel 1995; “noi credevamo” del 2010, premio Alabarda d’oro come miglior film e miglior sceneggiatura; “Il giovane favoloso” dedicato alla vita di Giacomo Leopardi, presentato al Festival di Venezia nel 2014.
La sceneggiatura, composta da Martone insieme alla moglie Ippolita Di Mayo, riporta, tra l’altro, un periodo della vita di Karl Wilhelm Diefenbachun un artista tedesco pacifista, dedito al naturismo, deceduto nell’isola nel 1913, il quale riunirà attorno a sè diversi seguaci provenienti dal Nord Europa, formando una comunità.
Siamo nel 1914, alle soglie della Prima Guerra Mondiale ed il regista, probabilmente per aver dovuto girare le scene in questo periodo storico, non ci ha potuto regalare inquadrature delle caratteristiche architetture e ha tralasciato anche di girare quelle eccezionali visioni dell’isola di Capri.
Guardando Capri-Revolution il pubblico rimmarrà forse deluso se si aspetta una piacevole serata in compagnia delle visioni mozzafiato della magnifica isola: le scene sono girate, per un terzo a Capri, due terzi nel Cilento e alcune a Gaeta. Se tralasciamo qualche immagine fotografica dei faraglioni, della spiaggia e di qualche tramonto, la fotografia e l’ambiente non appaiono come avrebbero potuti essere, come il paesaggio e l’ambiente che il pubblico si aspetta. Egli si affida per lo più alle sequenze della comunità di persone spogliate, spesso distese sui massi o in scene di figure che danzano.
Degne di nota alcune immagini danzanti di corpi nudi che ricordano “le tele” di Matisse, realizzate nel 1909 e 1910, e la confluenza del film nella ben più tarda arte del tedesco Joseph Beuys, (1921-1986), definito lo sciamano dell’arte.
LA TRAMA
Il film si dilunga forse nel far vedere una comunità di persone, poco gradita ai residenti, che si dedica a riti dai quali non si intende bene la provenienza. Tra questa comunità si insinua Lucia, interpretata da Marianna Fontana, residente nei pressi con la sua famiglia contadina, che sembra addetta solamente al pascolo delle capre. Subirà presto il fascino della figura del capo Seybu, interpretato dall’affascinante Reinout Scholten van Aschat, che sembra uscire dalla figura carismatica di un guru. Come ci spiega lo stesso Martone: “Lucia è una figura luminosa, non ha paura. Dall’analfabitismo si conquista una cultura. Le ideologie maschili dell’epoca non le sono sufficienti, attraversando, nella vicenda, un processo di maturazione che la porterà all’indipendenza”.
La ragazza, rapita dalla curiosità, mano a mano che il film si snoda, prende sempre più parte all’attività della comunità, con grande disapprovazione della famiglia.
Nella vicenda si interseca anche la figura di un giovane medico arrivato improvvisamente nell’isola, impersonato da Antonio Folletto, il quale, pur frequentando la comunità e prodigandosi molto nella cura degli ammalati, dimostrerà di non apprezzare e condividere le idee del gruppo naturista e del suo capo.
Il film lascia quel senso di insoddisfazione, come di un periodo lasciato in sospeso e non compiuto, per non aver affrontato fino in fondo il tema e le ragioni dell’insediamento della comunità nell’isola di Capri e senza aver provato a fornire una risposta personale dell’autore alla vicenda: l’insediamento della comunità sembra voler esportare un nuovo modello di vita nella natura ma, in realtà, nel film, non sembra dimostrare altro oltre all’all’ozio, al vegetarianismo, alle danze, al nudismo e a qualche discorso di pace sociale nel mondo.
Completano il senso di attesa dello spettatore ad una soluzione (che non arriva), la visione di una ragazza che, nonostante sembri svincolarsi dai legami della famiglia per abbracciare i suoi ideali insieme alla comunità, alla fine parte, lasciando sola anche la madre, l’unica figura comprensiva e affettuosa.