Visitiamo ora gli ultimi 8 artisti del Padiglione Centrale denominato “degli artisti e dei libri”. Questi, a differenza di altri presentati precedentemente, trattano argomenti diversi dai libri.
PHILIPPE PARRENO
L’artista algerino, nato nel 1964, vive e lavora a Parigi. Provenendo da una notevole esperienza cinematografica e televisiva, mette a punto opere d’arte che assumono rilevanza nel contesto del movimento in concomitanza con le persone che partecipano all’azione. Nella fattispecie, qui alla Biennale, ci troviamo di fronte ad un oggetto scenografico che muta continuamente l’immagine percepita in conformità dei personaggi che la abitano. A volte assume il significato di un palcoscenico dove prendono vita i diversi personaggi del pubblico che visita l’esposizione, altre volte l’immagine, offuscata dal materiale di cui è composta l’installazione e dalle luci a intermittenza, appare spettrale. Si nota, in trasparenza la figura “di passaggio” che diventa, giocoforza inconsapevolmente, parte dell’opera quasi ad identificare un fantasma interiore.
L’artista così sembra esplorare le parti ignote dell’essere umano, come in un’indagine psicoanalitica, dove le varie parti di ciascun individuo, simbolicamente rappresentate dal pubblico che attraversa l’installazione, si manifestano. Un teatro dell’immagine, dove potersi chiedere chi siamo e dove andiamo, quasi per voler indagare cosa si trovi dietro il palcoscenico della nostra esistenza.
RAYMOND HAINS
Si dice che la pubblicità sia l’anima del commercio e l’arte è, anche se non per tutti, fonte di guadagno. Questo artista francese, classe 1926, ha fatto della pubblicità l’oggetto della manifestazione artistica. Già molti altri artisti prima di lui hanno preso a pretesto insegne pubblicitarie, personaggi mitici, icone del cinema e dello spettacolo, interpretando le immagini attraverso varie tecniche, creando interi movimenti artistici come ad esempio la Pop Art. Sembra che siano i manifesti ad attrarre maggiormente la creatività dell’artista, manipolandoli sul plexiglas fino a formare delle grandi composizioni altamente suggestive. Il suo operato, che è sempre stato di natura politica, di opposizione alle istituzioni, si manifesta deformandone, anche visibilmente, i connotati delle sue scritte fino a farne assumere significati ironici e trasgressivi contro una cultura del potere: egli giudica la Biennale come strumento di propaganda. Sono sue le azioni più provocatorie, come quando nel 1964 e nel 1966 ha strappato i manifesti della Biennale di Venezia, alla quale era stato invitato, e tagliato, nel 1968, la pubblicità di ben 9 Padiglioni intitolando la sua opera La Biennale esplosa.
Al di là di ogni atteggiamento contestatario, pur rimanendo il senso della denuncia, molte sue opere risplendono di vivacità e creatività quasi a voler esprimere un linguaggio nuovo, attraverso degli occhiali che deformano l’immagine e i caratteri della scrittura. Evoca un guardare da altri punti di vista, che non sono quelli abituali, l’alternativa alla semantica del potere del denaro al quale la pubblicità si presta, esplicitando il bisogno di qualcosa al fine di spingere all’acquisto.
HASSAN SHARIF
E finalmente arriva il Capodanno. È mezzanotte, gettiamo tutto fuori dal balcone! Disfiamoci delle cose inutili che per tutto l’anno ci hanno infestato la casa. Gioiamo all’arrivo dell’anno nuovo sempre colmo di speranze per l’avvenire. Portate qui tutto quello che avete: scarpe vecchie, sandali rotti, barattoli usati, cartacce e cartoni, cordami, spazzole, stracci, posate ormai inservibili, secchi e spugne, palloni rotti e cianfrusaglie di ogni tipo, tutto ciò che ormai risulta obsoleto. Sarà una festa!
Siamo di fronte all’installazione dell’artista Hassan Sharif, di Dubai, dove espone la sua raccolta a partire dal 1986 fino al 2016. Una targhetta affissa al muro della sala ci spiega che si tratta di “manifestazione di resistenza all’abbondanza del sistema commerciale e consumistico”. Ma, forse, può voler dire anche determinare finalmente un taglio netto col passato per guardare al nuovo. Invoca il coraggio di abbandonare le vecchie abitudini, i pregiudizi, staccandoli da ciò che disturba e si fatica a lasciare, perché pensiamo sempre che un domani possa essere utile. Pensiamo al presente e soprattutto al futuro!
C’è di più, però. La denuncia è a larga scala, un invio a disfarsi da tanto marciume, corruzione e speculazione che riguarda la politica. Un simbolo di tante azioni compiute per l’interesse personale, contro la collettività, che bisogna assolutamente allontanare; sono poste in vetrina per poterle evidenziare, per prenderne coscienza, per sensibilizzare le persone, per poter gettarle al più presto come spazzatura, per non continuare a subirle.
EDI RAMA
Campione di basket, sindaco di Tirana, Ministro della Cultura, docente d’arte, Edi Rama ha una personalità poliedrica, ama esprimersi attraverso la poetica del surrealismo: “non ero io a disegnare ma la mia mano”. Un gesto che proviene dall’inconscio dove la razionalità non trova posto, per andare oltre l’immagine per manifestare attraverso una forza interiore.
Forse, a prima vista, può sembrare una composizione valida per una carta da parati ma, a ben vedere, l’artista ama ripercuotere la superficie murale con un’infinita varietà di creazioni provenienti dall’ignoto. Reiterare la forma sublimando la propria metamorfosi compositiva. Parole forse astruse e difficili per rappresentare concetti che non sono affatto semplici in quanto appartenenti alla sfera più intima e personale dell’artista. Egli, infatti, si dimostra sempre coerente nell’affrontare il disegno spontaneo, il colore che lo riempie senza una ragione plausibile di rappresentazione: “scarabocchi” che sembrano senza alcun senso compiuto perché dettati dall’anima e dallo spirito più che dal cervello.
OLAFUR ELIASSON
Presentare a una manifestazione d’arte contemporanea come la Biennale di Venezia un oggetto di design funzionale, che effettivamente sia utile, per quanto creativo esso possa essere, è sempre rischioso: ci si può distogliere dall’essenza dell’opera d’arte costruendo un lavoro di artigianato e, quando viene prodotto a scala industriale, scadere nell’interesse dell’utilità commerciale. Ma Olafur Eliasson, nato a Copenaghen nel 1967 ma vive e lavora a Berlino, utilizza il disegno -da lui creato in collaborazione con Thyssen-Bornemisza Art Contemporary di Vienna- per farne strumento di lavoro collettivo.
Il progetto presentato, intitolato Green light, prende infatti l’avvio da un modulo di materiale riciclato come lampada poliedrica. Lavorato con stampanti a 3D, assemblato in diverse conformazioni, diventa installazione assumendo il significato di un’opera che sa attingere anche alla politica, quando viene costruita, come in una performance spontanea, dai giovani rifugiati, migranti e studenti. Gli stessi visitatori della Mostra sono invitati a partecipare all’iniziativa. Dalle diverse nazionalità di provenienza nasce e si sviluppa una collaborazione alla quale il progetto ne trae lo spunto per diventare momento di scambio culturale.
MCARTHUR BINION
In questa sala ci aspettano una serie di composizioni, che sembrano dei coloratissimi pavimenti a piastrelle, grandi tappeti appesi alle pareti. L’artista settantenne vive e lavora a Chicago, è stato il primo afroamericano a diplomarsi all’Academy of Fine Arts in Michigan, premiato come uno degli studenti più meritevoli. Si dedica alle composizioni riportandoci ai tempi dell’astrattismo e, a partire dal 2013, l’artista inizia a produrre i suoi lavori chiamati DNA Series, come quelli esposti alla Biennale. Si tratta di opere astratte, elaborate con pastelli ad olio e carta su tavola, con una serie di scritti autobiografici: certificati di nascita, pagine della sua rubrica personale, fotografie della sua casa natale. Composizioni quindi, non dettate dal caso o dal semplice rigore geometrico, ma la rappresentazione di un susseguirsi di eventi che riflettono l’artista stesso, la sua immagine anagrafica e la sua infanzia.
È un racconto, tra le righe, che sembra camuffarsi attraverso il lirismo del disegno e del colore. Con queste opere l’artista rende partecipe il pubblico di sè e delle sue esperienze. Sembra voler gettare via una maschera per poter uscire allo scoperto dimostrandosi per quel che è senza pregiudizi e falsi pudori: mettere a nudo la propria interiorità attraverso il quadro. Questo sembra sia il carisma e l’emblema di Mcarthur Binion che riesce a coinvolgerci con i suoi “pavimenti” -dove normalmente si cammina su di una superficie orizzontale- come fosse appunto un cammino della propria esistenza, nella trasposizione verticale per poter essere meglio visto ed appreso.
CERITH WYN EVANS
Nato nel 1958 in Gran Bretagna, vive e lavora a Londra, e si presenta alla Biennale di Venezia con un video muto girato in Super 16mm della durata di 15′. L’opera, intitolata Pasolini Ostia Remix, composta tra il 1998 e il 2003, ci riporta al dramma della morte del regista, scrittore e poeta, avvenuta il 2 novembre del 1975. Nella frase riportata sulla scritta illuminata, consumata dalle fiamme del fuoco d’artificio, tratto dal film autobiografico Edipo Re del 1967, si riconosce la descrizione del paesaggio dove Pasolini ha trascorso la sua infanzia.
Se alcuni filmati esposti alla Biennale ci lasciano costernati è perché, a prima vista, fatichiamo a coglierne i significati più introspettivi e meno manifesti ai quali siamo abituati: una trama, dei personaggi, un inizio ed una fine di un racconto. In effetti, nell’arte contemporanea, il racconto spesso esiste ma si snoda attraverso la personalità dell’artista, con simboli, metafore ed evocazioni che esprimono, come in questo caso, drammi irrisolti ai quali lo stesso artista si ispira, lasciando allo spettatore il sentimento e l’emotività che desidera manifestare. Il dramma della morte di Pasolini, nella sua complessità, evoca infatti quanto di più irrisolto possa esistere nella nostra società, sottolinea quanto la grandezza, lo spessore culturale e politico di un uomo possa rappresentare, attraverso la sua identificazione, l’enigma alla soluzione dei nostri più gravi problemi sociali e personali.
AGNIESZKA POLSKA
Un altro video, della durata di 6 minuti e 25 secondi datato 2009, ci fa entrare nella visione dell’artista trantaduenna, nata a Lublino in Polonia. Con la sua opera, intitolata Sensitization to Colour, entriamo nell’elaborazione a computer e nell’affascinante campo dell’onirico focalizzando l’attenzione su Borowski, un artista molto ammirato da Polska. Si tratta di una ricostruzione di una performance che l’artista realizzò nel 1968. La visione, in bianco e nero, viene sottolineata dalle sfumature di grigio. Rappresenta una denuncia agli archivi storici che non riusciranno mai a ricreare la vera storia, questa è la sua tesi. Non a caso le prime opere dell’artista si formano da inchieste sugli artisti che sfuggono dalle istituzioni. Alla giovane artista interessa come il documento attinge all’opera d’arte tramandando un contenuto secondo alcuni schemi precostituiti, emarginando o legittimando, influenzando così la nostra comprensione delle opere.