Raffaello Bassotto e Daniele Nalin tornano a Treviso con una mostra allo Spazio Paraggi, dal 7 al 22 ottobre. Il titolo scelto è l’emblema del lavoro pluriennale di questi due artisti, che artisti in fondo non si vogliono definire. Preferiscono considerarsi due conoscenti che nella vita non hanno saputo fare altro che fermare immagini, nella pellicola e nella tela. Quindi, ecco: HERE IT IS.
È un’istantanea, una polaroid che illustra il risultato di un processo sintetico. Non possiamo dare una lettura analitica a questa esposizione perché corrisponde più ad un’intuizione, che per sua natura è scollegata dalla razionalità. Con ciò non intendiamo dire che intuitivo sia sinonimo di irrazionale ma piuttosto che sia il frutto di un lungo ragionamento, l’esito finale di un processo mentale che si manifesta in un attimo, in un’idea precisa che prende forma.
Se, a nostro avviso, gli oggetti in posa nelle fotografie di Raffaello Bassotto e i dipinti e collage su carta di Daniele Nalin sono solo il pretesto per manifestare una lunga riflessione sull’arte e sulla memoria, a ricordare come l’arte può essere l’espressione della società contemporanea, qui a seguito riportiamo cosa dissero di loro nomi autorevoli quali Edoardo Sanguinetti e Gillo Dorfles.
L’obiezione più immediata e facile è che nessuno può gestire la propria «posa» in modo autentico, per scaltro e esercitatamente avveduto che possa essere: di fatto, risponderà pur sempre ai canoni culturali di una determinata idea della «posa», sceglierà di atteggiarsi, e di comporsi, al possibile, in base a figurazioni che, sopra di lui, agiscono egemonicamente, istintive o riflesse. E disporrà il proprio volto, la propria espressione, il proprio atteggiamento, il proprio corpo, e il correlarsi alle figure o alle cose che gli stanno accanto, rispondendo con passiva attività a canoni e regole subite e interiorizzate. Ma tutta la scommessa di questa operazione, mi pare, trova qui appunto il suo punto di forza. In una «civiltà dell’immagine», tecnologicamente evoluta, non è importante e significativa la figura particolare, empirica, nella sua pura percettività sensibile. Anzi, quello che importa è che, nel documento, attraverso l’immagine ex machina che la fotografia propone, emerga il modello culturale da cui il soggetto oggettivato è guidato e regolato, e che si manifesti, a questo modo, la sua struttura profonda. E la più autentica, la sola. Perché niente è più condizionato di un riflesso sociale che scatta come spontaneo. È anzi la «posa» quella che può proclamare la verità (oggettiva davvero, perché oggettivabile) del suo essere sociale: il referto «mette in luce» (attraverso la «scrittura luminosa» che è la fotografia) la relazione concreta, precisamente perché culturale e storica, sociale e «ideologica», tra il soggetto e il mondo che lo circonda. Mettetevi in «posa» e vi dirò chi siete. Perché vi dirò, a un tempo, qual è il modello culturale che sognate di vivere e quale è quello che effettualmente vivete. E la loro distanza, e la loro dialettica.
Questo scriveva negli anni ‘80 Edoardo Sanguinetti delle fotografie di Raffaello Bassotto, nella prefazione al libro Borgo Nuovo, in una lettura così visionaria che rende la sua riflessione adeguata e cristallina per l’attuale lavoro del fotografo veronese.
Oggi che ha raggiunto una maturità espressiva compiuta e convincente, Daniele Nalin non deve più preoccuparsi circa le ‘leggibilità’ dei suoi dipinti: le figure e gli oggetti, gli sprazzi di luce e le meteore, le strisce colorate e le scritte, che si avvicendano e confluiscono nelle sue tele e che, già in passato, illustravano incontri e scontri, vicende e viaggi dove era riconoscibile un preciso nucleo “narrativo” -i viaggi nell’India misteriosa e variopinta, le strade congestionate di New York, le avventure di Peter Pan- oggi, nelle opere più recenti, sono quasi amalgamati a formare un unicum che si può leggere anche come se fosse soltanto un alternarsi di chiari e scuri, di accensioni e di ombre cromatiche. Ed è così, ritengo, che si può già effettuare una prima lettura di questi dipinti ammirandone la ricchezza di modulazioni, l’agilità dei percorsi, la libertà da ogni regola compositiva, da ogni preconcetto prospettico, da ogni resa naturalistica. […] Una cosa mi sembra certa: se è vero che queste tele vivono già per la loro ricchezza di impasti e accostamenti; se la vivacità dei colori timbrici, l’insolita strutturazione delle figure -tra il naif e il cartellonistico- è quanto mai suggestiva, bisogna riconoscere, che la capacità ‘narrativa’ di Nalin non deve essere sottovalutata. […] In un periodo dove troppo spesso l’arte visiva è priva di valori pittorici e plastici, ma anche si figurazioni capaci di creare un’atmosfera, questi lavori ci mostrano come si possa ancora affrontare dei temi narrativi e illustrativi senza bisogno di ricorrere a figurazioni anacronistiche o revivalistiche, e, allo stesso tempo, popolare di immagini appena accennate -o sognate- le proprie tele, quando si abbia il coraggio di gettare alle spalle ogni ricordo accademico, lasciandosi guidare solo dall’estro di una fantasia sbrigliata.
Gillo Dorfles, 1991
Brevi cenni biografici
Raffaello Bassotto, insieme al fratello Enzo, costituisce agli inizi degli anni ‘70 l’archivio fotografico del Comune di Verona. Il suo primo interesse fu il rilievo sistematico del territorio, che trova spazio in iniziative editoriali e mostre in Italia e all’estero. Dopo la partecipazione nel 1995 alla 46a Biennale d’Arte di Venezia e la collaborazione al progetto della Provincia di Milano “Archivio dello Spazio” si dedica esclusivamente alla documentazione del territorio e dei suoi cambiamenti, dando origine alla più importante e completa collezione privata di fotografie di archeologia industriale di Verona e provincia (Archivio Bassotto). Gli ultimi progetti si dedicano alla ricerca del dettaglio vs l’astrazione dell’oggetto.
Daniele Nalin intraprende l’attività di scenografo nel 1967 presso il Teatro Lirico Saò Carlòs di Lisbona, sotto la guida del Maestro Alfredo Furiga; dal 1970 prosegue l’attività a Milano e successivamente alla Fondazione Arena di Verona.
Nel 1976 conclude l’attività di scenografo e si dedica alla pittura ed espone in maniera continuativa in gallerie e musei; inizia a insegnare all’Accademia delle Belle Arti di Verona e nel 1983 viene a contatto con la storica Galleria del Naviglio di Milano e Venezia gestita da uno dei più autorevoli galleristi degli anni ’80, Renato Cardazzo, con cui inizia una stretta collaborazione che prosegue tuttora con figlio Giorgio.