
Cos’è l’arte? Difficile dare una risposta univoca ad una domanda così semplice. Eppure l’arte è forse la forma primigenia dell’espressione dell’uomo. Non è di nostro interesse sviluppare qui delle definizioni del concetto di arte, che troppo facilmente il web risolve con un solo clic. L’intento di questo articolo è quello di proporre una prospettiva meno nota, ma alquanto affascinate e autorevole, cercando di raccontare ciò che rappresenta l’arte in quella che è una delle culture più antiche del mondo: l’arte senza tempo dell’India.

I testi tradizionali della cultura indù descrivono la nascita dell’arte in questo modo: mentre i due saggi primordiali Nara e Nārāyaṇa, all’alba dei tempi, erano in profonda meditazione, alcune fanciulle divine cercarono di disturbare la loro quiete. Imperturbabile, Nārāyaṇa prese il succo di alcune foglie di mango, sagomò sulla sua coscia una bellissima figura femminile, dalla quale nacque un’affascinante ninfa che s’involò e alla cui vista le intruse provarono vergogna. Questa ninfa, il cui nome è Urvaṣī, è “la prima e più alta opera d’arte”. Poi, per poter diffondere la conoscenza in questo mondo, Nārāyaṇa insegnò l’arte a Viśvakarman, l’architetto degli dei. Fu così che il concetto di arte venne trasmesso agli uomini. I testi canonici indiani distinguono l’arte in due categorie, le arti visive e le arti auditive; tra le prime si devono enumerare architettura, scultura, pittura, che anche l’Occidente ha consacrato come arti maggiori, mentre tra le seconde si contano il canto, l’arte auditiva più perfetta perché prodotta dallo strumento musicale più nobile, la bocca umana, la musica, seconda al canto per la sua parziale artificiosità derivata dall’uso degli strumenti, e le arti letterarie e la poesia.
Le arti visive hanno un valore duraturo poiché sono fissate nello spazio e resistono nel tempo, basti pensare a tutti i monumenti che i popoli antichi ci hanno lasciato come eredità culturale; ma quelle caratteristiche non possono essere riconosciute alle arti auditive, che si diffondono nello spazio e hanno una durata temporale limitata. Sono infatti destinate a essere percepite per il tempo della loro esecuzione (malgrado la tecnologia contemporanea ne permetta ora la riproduzione). C’è però un gruppo di arti, definite come “arti agite”, che nascono dalla “risultante dell’azione del tempo sullo spazio”, producendo quindi un movimento: il teatro e la danza. La loro esecuzione manifesta sinteticamente forme e colori delle arti visive, ritmi e suoni delle arti auditive, usando il più perfetto dei materiali plastici: il corpo umano. È ciò che si è diffuso, semplificandone il concetto, con il termine comunemente in uso, di arti dello spettacolo.

Una delle peculiarità dell’arte indiana è quella di considerare la qualità della bellezza di un’opera d’arte del tutto indipendente dal suo tema, riconoscendo in essa ciò che è eterno e universale per ricavarne una visione fondata sulla comprensione, sul riconoscimento dell’universale privo di ogni sentimentalismo. Gli artisti indiani aderiscono al principio secondo cui la vera anima dell’Arte non vuole estrarre bellezza dalla Natura, ma rivelare la vita all’interno della vita, il noumeno all’interno del fenomeno, la Realtà entro l’irreale e lo Spirito nella materia, in una prospettiva di ricerca di realizzazione dell’essere individuale. Quando ciò è rivelato, la bellezza del Principio Supremo è essa stessa rivelata.

Una tale attitudine di comprensione della bellezza da parte dello spettatore dipende dalla sua capacità di immaginazione, poiché l’arte è sempre il risultato di un lungo, complesso e considerevole sforzo che si risolve nell’immediatezza del “qui e ora”, e niente può essere fatto senza che l’artista e lo spettatore condividano un’ispirazione comune. La bellezza è solo lo strumento utilizzato dall’Arte per evocare, nel soggetto che l’osserva, un sentire che si spinge oltre l’ammirazione estetica: la sola bellezza non può essere considerata oggetto di conoscenza, se non unita all’impressione evocata. La sua percezione è indivisibile dalla sua essenza vera e propria; senza l’impressione fruita dallo spettatore la bellezza non esiste. L’arte e la bellezza dell’arte non potranno essere considerate eterne, senza tempo, se la loro realtà non viene filtrata dall’esperienza. In tal modo, l’arte indiana e la ricerca dell’uomo di uno strumento di realizzazione si riconoscono nella medesima funzione: l’intuizione della realtà, il godimento estetico e l’identità dell’individuo con l’universale.

Nella contemplazione dell’opera d’arte, lo spettatore ritrova per un momento l’unità del proprio essere nell’Assoluto senza tempo, come se il segreto di ogni arte stia nel dimenticare se stessi, nel liberarsi dal vincolo delle contingenze dell’individualità, per potersi dedicare unicamente alla percezione dell’universale, sempre uguale, senza confini né nazionalità, unico e indiviso, dacché mondo è mondo. D’altra parte, come afferma il maestro Śaṃkarācārya nel suo commentario al Brahmasūtra, “la divinità è il vero tema di ogni arte, nel brahman vi è l’autentico valore degli inni vedici”.
La bellezza, nel suo principio, esiste dovunque, ma, come afferma il pensiero indù, essa deve essere scoperta, poiché non potrebbe esistere senza l’artista che ne plasmi la forma – o che ne compia il movimento oppure che ne produca il suono – e senza lo spettatore che penetri nell’esperienza dell’artista.

È importante sottolineare l’idea di rivelazione dell’Arte per evitare qualsiasi dubbio di errata interpretazione che potrebbe far immaginare l’Arte indiana come una libera produzione personale, svincolata da precisi canoni estetici. L’anonimato degli artisti indiani esplicita la loro funzione che non è l’ottenimento della gloria individuale, ma piuttosto il loro compito è paragonabile ad una funzione “sociale”: il rendere visibile all’occhio dello spettatore la “forma”, in sé unica, dell’Assoluto, nascosta nei multiformi aspetti della manifestazione nel mondo umano. Chi è, allora, l’artista? “È l’ape che trasporta il polline di fiore in fiore, permettendo all’albero di dare frutti”.

Se questo articolo ha destato il vostro interesse, segnaliamo l’incontro presso la libreria LOVAT di Villorba (TV), in via Newton 13, per la presentazione del libro “India, Arte oltre le forme”, venerdì 15 aprile 2016 ore 18.30, organizzato in collaborazione con l’associazione VAIS, presenti il Prof. Gian Giuseppe Filippi, già Professore ordinario di Indologia e Storia dell’Arte dell’India e dell’Asia Centrale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e il Dr. Guido Zanderigo, Cultore dell’Arte dell’India, per l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Chiara Stival
Chiara Stival si è laureata nel 1999 in Lingue e Letterature Orientali con una tesi sull’arte indiana presso l’Università Ca’ Foscari a Venezia. Ha sempre affiancato il lavoro in aziende private e pubbliche, area commercio estero e gestione risorse, con la passione per lo studio e la ricerca. Membro del Consiglio Direttivo della VAIS, dal 2009 è responsabile della collaborazione editoriale e grafica della collana Quaderni di Indoasiatica. Collabora dal 2015 con Italiandirectory come redattrice per la Cultura e l’Arte.