Abbiamo letto di recente, nell’inserto domenicale del Corriere della Sera, l’articolo di Costanza Rizzacasa D’Orsogna che risveglia nell’immaginario comune il sogno dei motel americani. La giornalista, infatti, riesce a contestualizzare in modo egregio il lavoro del fotografo Mark Havens Out of Season: The Vanishing Architecture of the Wildwoods , dedicato alle immagini di quel «modello urbanistico pensato attorno all’automobile».
Inevitabilmente il pensiero è corso al volume Archeologia del Novecento di Raffaello Bassotto, pubblicato nel 2014: un’indagine decennale, sistematica e meticolosa, condotta nella provincia d’origine, per immortalare luoghi e situazioni di cui egli, già dagli anni Novanta, ne percepiva la parabola discendente. Ciò che conta è documentare, i progetti di riconversione nascono da business plan di cui un artista non si può preoccupare. Con questo obiettivo egli percorre le strade del territorio fotografando i magazzini generali, le centrali idroelettriche, le fornaci e le cartiere e tutte quelle aziende manifatturiere e non, che hanno segnato il paesaggio e la vita della società nel dopoguerra italiano. Verona e la sua provincia si ergono a simbolo di ogni provincia italiana, al punto tale che la didascalia diviene quasi superflua perché in questo linguaggio rappresentativo Raffaello Bassotto astrae il concetto di ciò che è stato, di un momento meno noto e approfondito della recente storia italiana.
Ciò che particolarmente risveglia questo senso di nostalgia e che muove il richiamo all’on the road di Havens, sono state le parole di Marta Bassotto che proponiamo ai lettori. Il suo testo, qui a seguire, è uno degli interventi pubblicati nel libro.
Non i motel, ma i distributori di benzina sono stati una delle icone del progresso e del cambiamento della società italiana. Le stazioni di sosta diventano stazioni di servizio, alcune si imposero con una linea futurista, a caratterizzare l’azienda petrolifera, altre sembrano aver sostituito l’acqua per i cavalli all’idrocarburo per il motore. Queste immagini sono tracce lasciate sulla strada che, “raramente ma ancora”, possiamo scorgere nelle strade statali e provinciali. Sono segnali di quel influsso americano che ha determinato il cambiamento del paesaggio italiano.
“Tutti sono sempre più impazienti, più agitati e irrequieti. Le autostrade e le altre strade d’ogni genere sono affollate di gente che va un po’ da per tutto, ovunque, ed è come se non andasse in nessun posto. I profughi della benzina, gli erranti del motore a scoppio.”
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953
La consunzione delle opere che degradano nel tempo, a volte conservate e trasformate a nuova vita altre no, mina l’identità delle loro forme e del paesaggio intorno. Luoghi e non luoghi che a seconda della cultura della società sono spazi vissuti o solo attraversati, le cui architetture sono spesso ignorate e indifferenti ai più. Il degrado a volte le rende più visibili con le loro imperfezioni o mancanze (di alcune parti) che si accumulano, si staccano, sbiadiscono.
La nostra epoca ha conquistato, però, fortunatamente una contemplazione delle rovine e un gusto per l’irregolarità, una fascinazione melanconica, retrò che vuole cogliere nel dopo quello che all’epoca del nuovo non riusciva a vedere. Insomma il bello delle cose andate, vissute anche se forse talvolta di moda. Le stazioni di servizio sono appunto uno dei posti che solitamente non vediamo, né consideriamo. Sono punti urbani o oasi extraurbane esclusivamente utili al rifornimento ma sui quali il nostro sguardo non si ferma. Non luoghi quindi.
Diversamente da noi, la società americana da sempre li ha ritratti nel suo immaginario artistico, nel cinema, nella fotografia o nella pittura. La cultura on the road li ha immortalati nei suoi film facendoli entrare appieno nell’accezione di Paesaggio. Quando nel primo decennio del Novecento in Italia facevano la loro comparsa le prime pompe di benzina, in America si affacciava già un gasoline station style con insegne coloratissime, simbolo, poi affermato, delle più grandi società petrolifere, preso successivamente in prestito dalla pop art e divenuto parte dell’estetica del territorio e della società.
A volte il distributore è divenuto l’insegna stessa, ma al di là dell’aspetto esteriore la stazione di benzina è sempre stata luogo di scambi, di commercio e passaggio di persone. A volte dal sapore stantio, sosta polverosa nell’immenso territorio americano, altre tecnologico e fuso nel drive-in delle nuove metropoli. Il cinema ha mostrato spesso le pompe di benzina, isolate o fuse insieme ai dinner, dove si svolgevano accadimenti, tratti salienti o secondari della storia dei protagonisti. Personaggi colti nella realtà di tutti i giorni ma che risultano indifferenti al luogo in cui si muovono e agiscono.
Le pompe di benzina, viste così, sono una terra di mezzo: un non luogo che aspira ad una ridefinizione di significato. Partendo dallo sguardo a-topico di Edward Hopper, con pompe di benzina in paesaggi decentralizzati giungiamo alla resa architettonica del vuoto, cui si tenta di dare radici più profonde. Forse anche per questo, alcuni architetti famosi, come Norman Foster, hanno voluto disegnare in tempi recenti alcune stazioni di servizio o già, negli anni ’60, artisti come Edward Ruscha ci hanno offerto un’elaborazione concettuale del soggetto (Twentysix Gasoline Stations). Il panorama urbano rivisto nella sua bellezza quotidiana, durante il viaggio.
In Italia la scoperta del cemento armato e, in un secondo momento, dei calcestruzzi precompressi ha visto la nascita negli anni Trenta dei distributori di benzina moderni e contemporaneamente lo sviluppo di una rete legata alla costruzione delle autostrade, degli autogrill e di alcuni insediamenti urbani connessi alle vie di comunicazione. Antenata del centro commerciale la stazione di servizio è sempre stata considerata però opera minore al punto da non essere quasi mai riconvertita come struttura con altre funzioni, ma solitamente abbattuta.
Eppure molti edifici hanno saputo sfruttare le potenzialità del nuovo materiale con strutture fortemente plastiche, poderosi sbalzi delle pensiline e svuotamento dei volumi, evocando ad esempio le linee aeree delle carrozzerie delle automobili degli anni Cinquanta e delineando un’architettura funzionale ma anche innovativa nel linguaggio. Di queste memorie, che si avviano solo ora ad un lento riconoscimento, forse non troveremo più traccia nel prossimo futuro. Nessuna rovina o parte di essa a testimoniare quel che fu. Solo l’occhio di chi ha saputo coglierle in tempo e trasportarle sulla pellicola o sulla tela, di chi le ha scritte e pensate oltreché progettate e vissute le preserva in parte dall’oblio.
Uno sguardo che necessita tuttavia di una particolare empatia volta a conservare e valorizzare il paesaggio contemporaneo, per creare nuove progettualità e dare spazio a nuove forme, a nuova vita.
“Chi c’è da ammirare oggi? Un qualche leader mondiale? E chi? In realtà potrei dire di ammirare parecchie persone. C’è un tizio che lavora in una stazione di servizio di Los Angeles – un vecchio; quel tizio lo ammiro davvero. Cos’ha fatto? Una volta mi ha dato una mano a riparare il carburatore della mia auto…”
Bob Dylan, intervista 1986
Il volume Archeologia del Novecento contiene i testi di Enrico Gusella, Antropologie, Erika Bossum, Friche, Franco Bottacini, Officine Cardi, Ugo Brusaporco, Laudo Deum Verum, Daniela Rosi, Di quel che resta, Marta Bassotto, Luoghi e non luoghi.
Le 170 fotografie sono di Raffaello Bassotto.
Il libro e le immagini sono ordinabili scrivendo a archiviobassotto@gmail.com.
Marta Bassotto
Marta Bassotto si laurea in Scienze della Comunicazione – Editoria e Giornalismo presso l’Università degli Studi di Verona e frequenta i corsi di Tecniche Pittoriche all’Accademia delle Belle Arti. Affianco alla sua passione per l’arte, che la vedono partecipe a numerose collettive, lavora nell’ambito della fotografia digitale per interni e arredamento. È co-fondatrice e photo editor di Art Frigò, azienda di photo design per ambienti e oggettistica. Dal 2005 lavora alla post-produzione delle foto e pubblicazioni di Raffaello Bassotto ed è curatrice dell’Archivio Bassotto.