Il primo ricordo di un Alpino è quello del nonno, uno dei fortunati che riuscirono a tornare dalla campagna di Russia, in una fotografia in bianco e nero sulla credenza, sempre a vegliare sulla quotidianità della vecchia casa. Il secondo è quello del nonno con il suo cappello, che annualmente indossava con la fierezza dell’essere un Alpino. Quell’orgoglio è lo stesso che ho rivisto in tanti altri volti sconosciuti, così profondo da ipotizzare che indossare un cappello con la penna nera possa rievocare un’identità collettiva.
A cinquant’anni dalla prima adunata, nel 1967 (non c’ero) e dopo ventitré anni dalla seconda, nel 1994 (c’ero), torna a Treviso la 90a Adunata Nazionale degli Alpini: l’Adunata del Piave. Negli ultimi due mesi, la città e molti paesi della provincia hanno esposto il tricolore, primo segno della grande festa commemorativa, e ora l’organizzazione è pronta ad accogliere una celebrazione di tre giorni che riempirà l’urbs picta di eventi, sfilate, concerti e incontri di commilitoni e simpatizzanti; sono riti irrinunciabili, un misto di sacro e profano, nella terra del fiume Sacro alla Patria e in questa particolare ricorrenza del Centenario della Grande Guerra.
Succede inoltre che lo scorso febbraio, in occasione del concerto dei Radiofiera per il finissage della mostra La geografia serve a fare la guerra? (Fondazione Benetton Studi Ricerche, Treviso), ho ascoltato inaspettate rivisitazioni di canzoni dei soldati, intervallate dalla lettura di alcune poesie e riflessioni, a cura di Daniele Ceschin, storico e studioso della Grande Guerra. Ciò che di lui mi ha colpito è stata la ricerca di una visione più ampia del passato, così questa speciale Adunata nella nostra città diventa l’occasione giusta per chiedergli “chi sono gli Alpini?”. Ecco allora alcune domande sulla storia dei Soldati della Montagna, per provare a capire qual è -se c’è- l’ingrediente che amalgama in modo omogeneo e originale l’italianità degli Alpini.
Il corpo degli Alpini nasce in una sorta di riorganizzazione dei Distretti Militari, perché e quando l’esercito avverte la necessità di crearlo?
Il corpo degli alpini venne fondato con il Regio Decreto 15 ottobre 1872 per volontà del ministro del ministro della guerra Cesare Ricotti Magnani. L’anno successivo si costituirono i battaglioni, ma bisognerà attendere il 1909 per la formazione dei reggimenti che fissarono la loro sede a Mondovì, Cuneo, Torino, Ivrea, Milano, Verona, Belluno, Udine. Il corpo nacque dall’importanza sempre maggiore che si attribuiva all’arco alpino e alla necessità di una sua difesa, dal confine con la Francia a quello con l’Austria-Ungheria, oltre che in previsione di una guerra estrema con operazioni belliche in quota. Sicuramente rese più difficoltose dalla precarietà delle postazioni, in gran parte minuscole baracche aggrappate alle pareti rocciose o sospese nel vuoto, e dalla necessità di domare le avversità geologiche e climatiche.
Oltre agli Alpini, che già sono i soldati della montagna, alcuni anni dopo prende vita anche l’Artiglieria da montagna: perché un ulteriore corpo speciale?
Nel 1877 vennero create le prime cinque batterie di artiglieria alpina. L’artiglieria da montagna nacque come supporto alle squadre di fanteria alpina. Questo perché con la creazione delle prime compagnie alpine divenne sempre più chiara la necessità di avere un aiuto non solo da reparti di artiglieria da fortezza, quindi da postazioni fisse, ma anche da reparti mobili che si potessero spostare a seconda delle necessità e della situazione del fronte. Da quel momento artiglieria da montagna e fanteria alpina diventarono un connubio inscindibile, in tempo di pace come durante i conflitti, per la difesa o il controllo del territorio italiano. Al momento dell’ingresso in guerra dell’Italia, nel 1915, i reggimenti di artiglieria da montagna erano tre.
Gli Alpini sentono in modo piuttosto forte l’Adunata Nazionale, per quale motivo secondo lei è ancora vivo questo “spirito di corpo”?
Quello degli alpini costituisce un mito guerriero che non ha eguali nel panorama militare italiano. La letteratura degli alpini e sugli alpini è sterminata e la Grande Guerra rappresenta la genesi dell’immaginario bellico di questo corpo, cementato nel suo spirito anche dalle vicende belliche della Seconda guerra mondiale con le disfatte subite dall’esercito italiano sui vari fronti: la campagna di Grecia e soprattutto quella di Russia, vere e proprie fucine di testimonianze, diari, memorie. Ma è evidente anche il ruolo che gli alpini in caserma e gli alpini in congedo hanno svolto nell’Italia repubblicana in occasioni di grandi calamità naturali, su tutte il terremoto del Friuli del 1976.
In questo Centenario della Grande Guerra, l’adunata è proprio a Treviso, città a due passi dalla Piave e quartier generale della linea del fronte. Qual è oggi la rilettura che si può dare a quel lungo anno di combattimenti?
Con la rotta di Caporetto, quella di Treviso sarebbe diventata la provincia più esposta ai combattimenti, la “provincia del Piave”. Tanti piccoli paesi posti alla destra e alla sinistra del fiume si trasformarono in una “terra di nessuno”, sarebbero stati sgomberati, distrutti e ricostruiti; altri sarebbero stati teatro delle offensive e controffensive dell’ultimo anno di guerra che ne avrebbero modificato perfino il nome. Dopo la rotta dell’ottobre del ’17, Treviso fu la tappa obbligata per migliaia di soldati sbandati e di civili in fuga dal Carso e dal Friuli. E nel giugno del ’18, prima di diventare il capoluogo della “provincia della vittoria”, la città visse un ultimo sussulto, con le sue vie percorse dai feriti nella battaglia del Solstizio e con il rischio di venire travolta dall’ultima offensiva dell’Austria-Ungheria.
È d’accordo nel considerare la Prima Guerra Mondiale come la Quarta Guerra d’Indipendenza?
In un certo senso la Grande Guerra completa il percorso risorgimentale con l’acquisizione di Trento e Trieste, ma il conflitto è completamente diverso nelle sue dinamiche politiche e militari. Va aggiunto che l’interventismo di matrice democratica che si richiamava al Risorgimento e alle sue componenti progressiste e repubblicane, fu presto emarginato dal nazionalismo. Lo stesso irredentismo trentino e giuliano fu ben presto accantonato e figure come Cesare Battisti strumentalizzate a fini politici.
Cosa pensa del generale Cadorna e dello Stato Maggiore dell’Esercito?
La guerra di Luigi Cadorna non fu molto diversa da quella dei suoi colleghi. Le offensive sull’Isonzo vennero condotte con decisione ma i ripetuti attacchi frontali logorarono truppe del tutto impreparate a quel tipo di combattimento e si tradussero in perdite enormi di uomini e materiali. Cadorna rimase alla guida del Comando supremo anche dopo l’offensiva austriaca della primavera del 1916 e nel 1917 rinunciò a porsi alla guida di una dittatura militare, come auspicava l’ala più oltranzista dell’interventismo, ma solo per lealismo monarchico. Il giudizio più negativo riguarda la ferrea disciplina militare imposta ai soldati e il ricorso alle fucilazioni sommarie. Oltre al fatto che Cadorna attribuì ingiustamente il disastro di Caporetto ai suoi soldati.
Pensa sia stato determinante l’aiuto degli alleati nelle Battaglie dell’ultimo anno di Guerra?
Il contributo dei francesi e dei britannici è stato importante ma non determinante. È stato rilevante l’apporto dei francesi nella battaglia di arresto soprattutto sul Monte Tomba e delle truppe britanniche nel Medio Piave durante la battaglia finale e ci sono stati molti caduti tra le loro fila. Tuttavia la loro presenza sul fronte italiano – come pure quella di truppe italiane su quello francese – è da leggere più in chiave diplomatica che militare e in funzione di una conferma e rafforzamento dell’alleanza.
I suoi due libri Piave. L’ultimo fronte della Grande Guerra e Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra pongono una particolare attenzione alla linea della Fronte ma anche verso la cittadinanza. Da dove parte l’interesse della sua ricerca?
L’idea di studiare i civili parte da lontano, dalla consapevolezza che la storiografia sulla Grande Guerra aveva dedicato molto spazio alle vicende militari ma aveva colpevolmente trascurato la dimensione bellica della popolazione. Profughi, internati, persone vittime delle occupazioni degli eserciti per molto tempo non erano stati oggetto di indagine. Penso di aver colmato questa lacuna e di aver dato un contributo non secondario sia nella conoscenza dei fatti, che nell’interpretazione. La guerra ha investito i civili anche lontano dal fronte, ha cambiato l’orizzonte culturale di un’intera generazione, ha modificato la mentalità collettiva della società locale, italiana ed europea.
Come è nata la collaborazione con i Radiofiera per lo spettacolo “A guerra finita”?
Con Ricky Bizzarro, leader dei Radiofiera, il rapporto dura da alcuni anni e assieme abbiamo lavorato allo spettacolo “Dalla terra di nessuno” dedicato alla rotta di Caporetto e all’ultimo anno della Grande Guerra. Una collaborazione che ci consentirà di lavorare a nuovi progetti mettendo al primo posto la qualità delle proposte e l’importanza di comunicare la storia e di emozionare chi ci ascolta.
Ultima domanda: visto che manca un anno e mezzo all’epilogo, ha in mente un nuovo progetto?
Non sono schiavo, come altri studiosi, del clima del Centenario. La ricerca, lo studio, la scrittura non possono tener conto delle scadenze degli anniversari. Sto ultimando due volumi, uno sull’ultimo anno di guerra e un altro sull’occupazione austro-ungarica in Friuli e Veneto, un libro gemello e complementare a Gli esuli di Caporetto. Poi sto lavorando a un volume complessivo sulla Grande Guerra che, come tutte le cose serie, deve essere anche un bilancio storiografico al termine del Centenario.
L’intervista è finita e mi domando nuovamente chi sono gli Alpini; la risposta sta in due parole di Daniele Ceschin “mito guerriero”. Il ricordo torna alla mia infanzia: immagini, racconti e canzoni.
E allora… W GLI ALPINI!
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