1951: l’Anno dell’Alluvione e del primo Scudetto

Il 14 novembre 1951, il Po fa del Polesine un immenso, tragico pantano. Per il mondo intero questa diventa la terra della disperazione e della tragedia. Lo stesso anno, i RossoBlu del Rugby si aggiudicano il primo dei 4 scudetti consecutivi.

Atto di orgoglio e prova di forza di una terra che dalle avversità sa trarre nuova energia.

Questa, e tante altre storie, non meno epiche, vengono rievocate da “Rugby. Rovigo città in mischia”, una mostra che vuole andare oltre la cronaca sportiva, per raccontare come questo sport sia valso, a Rovigo forse più che altrove, come modello sociale di inclusività e accoglienza.

La mostra curata da Ivan Malfatto, Willy Roversi e Antonio Liviero, da una idea di Sergio Campagnolo, sarà a Palazzo Roncale dal22 ottobre 2022 al 29 gennaio 2023, per iniziativa della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo.

È quella dei RossoBlu del ’51 una vittoria che stupisce e meraviglia, colpisce l’immaginazione di chi non conosce (ancora) la grande tradizione rugbistica di questo lembo dimenticato d’Italia. La terra dell’Alluvione è Campione d‘Italia. Qualcosa di incredibilmente epico, che le cronache sportive sanno ben rimarcare.

Quel Rovigo del Rugby ha la sua forza nella mischia. Non manca di grandi solisti ma è dal lavoro di insieme che tra maggiormente forza. La propulsione viene dalla attitudine al combattimento.

Che unisce ragazzi di estrazione sociale diversissima: i figli della borghesia con “quelli di San Bortolo”, il quartiere popolare dove la città diventa campagna, accogliendo i più poveri. I ragazzi cresciuti lì portano in squadra spirito battagliero e voglia di riscatto sociale.

Con il rugby si esce dalla marginalità diventando qualcuno in città, legando con i compagni di squadra della buona società del centro, girando l’Italia per giocare. Qui nascono o vivono i Battaglini, Bettarello, Cecchetto, Biscuola, Visentin, e poi Busson, Quaglio, Vecchi, Casellato, Bordon, Bassani… Gente che ha fatto la storia RossoBlu.

«Quartiere povero – lo descrive Luciano Ravagnani – Lungo la strada che porta al cimitero ci sono lunghi edifici anonimi. Tante famiglie, tanti figli. Qui nascono le “bande” dei ragazzi del dopoguerra: per giocare, andare a nidi, a cogliere frutta, a fare danni. È il rugby alla fine a “togliere dalle strade”.

A San Bortolo c’è anche un istituto per l’assistenza agli anziani. Un’ala ospita un orfanotrofio. Centinaia di ragazzi, molti hanno perso il padre in guerra, altri entrambi i genitori, qualcuno è trovatello.

Il loro svago principale è lo sport, costa poco. Giocano su un campo dove non fa in tempo a crescere un filo d’erba, a calcio e un po’ anche a rugby”.

Per Toni Cibotto, più poetico, «lo spiazzo erboso davanti alla chiesa di San Bartolomeo, in dialetto San Bortolo» con il «suo rettangolo verde somigliava ad un giardino da fiaba, protetto da un’alta siepe di bosso e dall’ombra fronda dei tigli, che durante la fioritura spandevano un odore acuto, penetrante. È molto più di una squadra. È l’identità di una città che si riversa allo stadio.

E comincia a macinare scudetti, anche  se fuori il mondo sembra finire e nessuno punterebbe una lira su Rovigo.

Ufficio Comunicazione
dott. Roberto Fioretto
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